giovedì 7 novembre 2013
Spesso mi chiama babbo. Benché siamo coetanei, ugualmente vecchi: anzi lei è nata un po' prima di me. Il vocativo non è mai appartenuto al nostro lessico matrimoniale: mi chiamava così solo quando parlava di me alle nostre figlie. E, dato il personaggio, escludo si tratti di un vezzo, recente, che ricalchi abitudini altrui. Forse questo suo modo di rivolgersi a me dipende dal fatto che talvolta non ha chiara la natura dei nostri rapporti. Non sempre sa che sono suo marito. Ma è evidente, comunque, che il vocativo esprime, più che una nozione o una convinzione, un desiderio e una debolezza. Magari anche a causa della regressione infantile nella quale lei è immersa. La sostanza è che si sente debole, incerta, confusa; e che chiede protezione: chiede aiuto. Come aiutarla? Non si sa bene come. Mentre è assai pesante vivere con lei: non tanto i singoli momenti, a uno a uno, della vita insieme, com'è diventata, quanto la routine. A volte nel guardare alla prospettiva, anche prossima, delle giornate, mi prende la disperazione. Non c'è quasi un piccolo spazio di libertà, per me. E sono sempre stanchissimo. L'unico rimedio è l'amore: amare davvero, sino in fondo, attivamente, utilmente (quanto è possibile). Sì, ma a un certo punto è difficile. Troppo difficile: perciò lo si deve chiedere a Dio.
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