Caro Marco Tarquinio,
venerdì 29 marzo, sotto al titolo «La logica delle armi», sulle pagine di questo giornale si è dato conto dell’«industria della difesa». Credo che sia più corretto parlare di industria delle armi, degli armamenti... Non le pare? Il problema è che la parola “difesa” viene poi sempre associata alla parola pace. E infatti la nostra premier proclama che per avere la pace occorre difendersi, e quindi armarsi. Sarebbe la forza della «deterrenza». Secondo me, invece, la pace non ha nulla a che fare col difendersi e tanto meno con l’armarsi.
Rocco Cangialosi
Gentile Tarquinio,
nessun giornalista ricorda più i nostri militari morti, in modo atroce, per uranio impoverito? Non sono morti solo i “nemici” a causa di quegli armamenti usati sistematicamente in tutti conflitti dal Kosovo in avanti... Quanti lo usavano e lo usano! E ancora: nessun giornalista ci segnala se c’è bisogno in Ucraina di strutture ospedaliere? Di medicine, di pelle sintetica per i feriti, di sostegni e protesi per i mutilati e gli invalidi? Non viene anche a lei il dubbio che a troppi pochi stia a cuore la sofferenza degli esseri umani? E questo sia in Russia sia in Ucraina... Davvero la risposta è solo armi più armi, e sempre più feroci, per entrambi i fronti?
Gentile Tarquinio,
Maria Teresa Martini
Gentile Tarquinio,
un paio di domeniche fa, il 24 marzo, ricorrevano i 25 anni dall’inizio dei bombardamenti della Nato su ciò che allora restava della Jugoslavia ovvero quasi solo la Serbia, Kosovo compreso. La ricorrenza è stata quasi del tutto ignorata dall’informazione del nostro Paese, eppure lo scardinamento del tanto richiamato e declamato Diritto Internazionale è cominciato proprio con quei bombardamenti deciso da nessuno, che è andato poi a intaccare la tanto richiesta (per l’Ucraina) integrità e sovranità territoriale di uno Stato europeo con il riconoscimento del Kosovo (contrariamente a quanto previsto dalla Risoluzione Onu che pose fine ai bombardamenti). Nonostante la contiguità geografica e storica, quanto accade in quelle terre pare non riguardarci eppure la deflagrazione della Jugoslavia è paradigmatica delle tragedie seguite un po’ ovunque negli ultimi decenni: dalla prevalenza della pregiudiziale etnonazionale sulle idee politiche al tradimento dei princìpi internazionali, dall’incapacità europea di farsi mediatrice a una visione schematica e divisiva di realtà assai composite e complesse, dalla comparsa di “nuovi Hitler” da combattere con ogni mezzo all’invio sconsiderato di armi per raggiungere la pace. Vero è che la formula historia magistra è alquanto abusata, ma la totale ignoranza del passato non aiuta certo a comprendere il presente.
Caro Tarquinio,
Matteo Cherubini
«Cara Mimmy, ero praticamente sicura che la guerra sarebbe finita, e invece [...] oggi è caduta una granata nel parco di fronte casa mia, il parco dove giocavo e mi divertivo con le mie amiche. Ci sono stati molti feriti. E NINA È MORTA. Una scheggia le ha colpito il cervello e Nina è morta. Era una ragazzina così dolce. Non riesco ad accettare l’idea che non la rivedrò mai più. Nina, una ragazzina di undici anni, vittima innocente di una stupida guerra. Sono disperata. Continuo a piangere e a domandarmi perché. Non aveva fatto niente di male. Una maledetta guerra ha distrutto la vita di una bambina...». Così il 7 maggio 1992 Zlata Filipović, adolescente bosniaca, racconta a un’amica immaginaria, Mimmy, la morte della piccola Nina. Consegnando la testimonianza di un tragico evento a un diario. Parole incise come ferite sanguinanti sulle pagine di un libro, Diario di Zlata (2013), dove l’autrice registra, con lo sguardo attonito di un’undicenne, i giorni bui della guerra di Bosnia. Immagini analoghe ai massacri dei bambini di Gaza, d’Ucraina e dei 184 conflitti in corso oggi nel mondo. Ogni guerra sconvolge, travolge la vita dei piccoli. Ha effetti nefasti sui loro corpi, sulla loro anima. Derubati dell’infanzia. Dell’adolescenza. La testimonianza di Zlata ci racconta come la vita di molti bambini dall’“ordinarietà” del quotidiano, fatta di scuola, amici, sogni sprofondi nella “straordinarietà” della guerra, segnata da sofferenza, atrocità, incubi. Le riflessioni dei miei studenti sugli eccidi dei bambini mi dicono che tanta crudeltà esige silenzio, preghiera, perdono. Gesto eroico. Sovrumano. Che può compiere solo Dio. O chi ha un cuore docile alla Sua voce e/o alla voce della coscienza. Come non ascoltare la “voce” mentre le guerre in Ucraina e a Gaza mettono ogni giorno l’orrore sotto i nostri occhi? «L’intera società dovrebbe mobilitarsi in nome della pace e in nome di un futuro migliore per i bambini», invoca Zlata Filipović. La celebrazione della Giornata Mondiale dei Bambini, indetta da papa Francesco per il 25 e 26 maggio prossimi, ci ricorderà che essi sono seme e segno di speranza, di gioia, di pace. Perché, dice il Papa, «la guerra e le armi tolgono il sorriso e l’avvenire ai bambini».
Vito Melia
C’è un motivo, eccome se c’è, del continuo monito rivolto da papa Francesco alle nazioni grandi e piccole contro la produzione e il commercio delle armi, un mercato in continua crescita negli ultimi dieci anni e con fatturati in impennata drammatica tra il 2020 e il 2022 (ben prima del riaccendersi della guerra in Ucraina con l’invasione russa del 24 febbraio di quell’anno). Siamo arrivati nel 2022 ad affari per 2.240 miliardi di dollari, riportando la spesa reale a livelli equivalenti a quelli degli anni Quaranta del Novecento. Alla fine di questo mese di aprile, i ricercatori del Sipri di Stoccolma metteranno a disposizione dell’opinione pubblica mondiale i dati del 2023, e tutto preannuncia che confermeranno purtroppo la tendenza in atto con una forte ripresa dei profitti per i produttori.
Sono dati da brividi, soprattutto se si pensa che basterebbe meno del 10% di quella cifra, cioè 200-220 miliardi di dollari all’anno, per finanziare una buona volta decentemente il Fondo di compensazione per i Paesi più poveri per procedere tutti insieme, nord e sud del mondo, nella reazione attiva alla crisi climatica globale oppure per debellare per davvero – come continuano a invocare le agenzie dell’Onu, Fao e Pam – lo scandalo feroce della fame di circa 800 milioni di esseri umani.
Dicono: ma le armi servono per impedire le guerre. Si chiama “deterrenza”: arsenali pieni per tenere lontani i “nemici”, per minacciare e scoraggiare i “cattivi” (che ci sono e sono ben riconoscibili quando aggrediscono con le più diverse motivazioni e scuse, ma – come ci rammenta il Papa – non stanno mai da una parte soltanto). Provate a immaginare la mappa del nostro pianeta non seguendo solo la linea dei mari, delle pianure, dei fiumi delle montagne, delle foreste, delle città e dei borghi, ma vedendo e annotando a una a una le 184 guerre grandi (una sessantina) e piccole (ma è mai “piccola” una guerra per chi ne subisce l’onda assassina e distruttiva?) che insanguinano l’umanità e avvelenano la Terra. Guardate quella mappa sfigurata dalla violenza e davanti a tanta straziante complessità fatevi una domanda molto semplice: l’esplosione della spesa militare, l’ombra sinistra delle armi atomiche e degli altri ordigni di distruzione di massa, il dispiegarsi di intelligenze artificiali che co-governano o governano del tutto sistemi d’arma elementari o di impressionante articolazione e capacità di annientamento ha forse portato più pace o ha invece e incessantemente alimentato la guerra? Impossibile negare la realtà. I fatti sono tenaci, e terribilmente eloquenti. E ormai abbiamo imparato che se il mondo non è in pace, neanche noi lo siamo (per quanto ci illudiamo e per quanto ci siano risparmiate, e non è affatto poco, le sofferenze più gravi).
La lettrice e i lettori con cui dialogo oggi affermano, in modi diversi, una stessa verità e danno voce a uno stesso impegno morale, spirituale e civile. A Rocco Cangialosi confermo ciò che ho appena richiamato: che l’industria delle armi e la spietata legge del profitto e della moltiplicazione della domanda (di guerra e, comunque, di scontro) che la regge non produce affatto sicurezza e pace, e “Avvenire” il 29 marzo scorso, Venerdì Santo, sotto al forte titolo di prima pagina «La logica delle armi» ha documentato ancora una volta il deliberato e calcolato Calvario sul quale si continua a crocifiggere Cristo e l’umanità.
Maria Teresa Martini, poi, fa bene a ricordarci che le armi avvelenano e uccidono anche chi le rivolge contro altri. La vicenda dei proiettili all’uranio impoverito, usati con certezza anche da noi occidentali in tutte le guerre dell’ultimo quarto di secolo, con tanti malati e morti anche tra i soldati italiani, lo sottolinea in modo drammatico. Teniamo sempre a mente che i primi a rompere il muro del silenzio su questa storia rivelatrice furono i colleghi giornalisti Antonio Maria Mira proprio qui su “Avvenire” e Alessandro Farruggia sul network di testate “Il Resto del Carlino”, “la Nazione” e il “Giorno” che oggi si chiama QN.
Matteo Cherubini ha, a sua volta, ragione a rimetterci sotto gli occhi la tragedia della guerra del Kosovo e dei bombardamenti Nato – senza mandato Onu e senza dichiarazione di guerra – su Belgrado e sulla Serbia, un conflitto con troppe vittime innocenti tra sebi e albanesi kosovari che provocò – come ho rammentato in più occasioni – il primo cambiamento di fatto dei confini di uno Stato europeo, dopo la fine della guerra fredda, compiuto in nome di un principio etnico (la prevalenza in quel territorio del gruppo albanese su quello serbo). Una ferita ancora aperta che Vladimir Putin usa come “precedente” per motivare le sue guerre vecchie e nuove in Georgia (2008) come in Ucraina (da dieci anni, non solo da due). Certo il leader serbo di allora Slobodan Milosevic, morto in circostanze ambigue in cella, era per davvero un cattivo ed è stato assolto dalla Corte Penale internazionale solo per «insufficienza di prove», mentre suoi stretti collaboratori e alleati sono stati condannati all’ergastolo per i «crimini contro l’umanità» compiuti in una delle altre guerre nell’ex Jugoslava, quella che ha massacrato i popoli della Bosnia-Erzegovina, ma ancora oggi contingenti Nato vengono mantenuti in Kosovo per impedire, in sostanza, che la minoranza serba ancora lì residente venga spazzata via... Facciamo fatica a fare i conti con la storia degli errori e degli orrori (commessi anche da noi occidentali), ma la storia non si cancella, ci parla e ci interroga – amplificando la voce della coscienza – sin dentro la cronaca dell’oggi.
A Vito Melia, appassionato insegnante, dico infine grazie perché ancora una volta ha saputo indicare un cuore essenziale del problema: ciò che le armi fanno ai bambini e al mondo che i bambini abiteranno. La guerra di Gaza è in corso da sei mesi con decine di migliaia di morti civili palestinesi provocati dalle truppe israeliane dopo la strage e la presa in ostaggio di molte centinaia di innocenti israeliani perpetrata dai miliziani di Hamas. La realtà atroce che vediamo torna a gridarci in faccia che i piccoli e le piccole sono vittime principali, nella carne, delle bombe e dei cecchini e, contemporaneamente, nell’anima sono vittime del veleno odioso inoculato o letteralmente sparato dalle ingiustizie e dalle violenze subite. La guerra è un mostro che fa a pezzi il presente e divora il futuro.
Una mamma e nonna, venerdì sera, a Lodi mi ha consegnato una confidenza che con discrezione e convinzione, senza rendere identificabile nessuno, condivido oggi con coloro che mi leggono. Un suo nipotino, dieci anni appena, pochi giorni fa le ha raccontato di come lui e i suoi compagni di scuola avessero parlato, in classe, con gli insegnanti e tra di loro delle guerre in corso e della pace che non si riesce a fare, concludendo con una frase triste che l’ha scossa profondamente e motivata ancor di più a fare tutto il possibile per fermare la corsa al riarmo e alla blindatura della condizione di guerra dell’Europa e del mondo. «Nonna, ti voglio tanto bene, ma so che tu morirai prima di me e dunque forse non farai la guerra che c’è dappertutto. Ma credo che a me toccherà proprio di farla questa guerra...».
No, non deve toccare a lui, ai nostri figli e figlie, ai nipoti e alle nipoti. No, non deve toccare più a ogni figlio e figlia, di ogni Paese, di ogni continente. E poiché invece accade, terribilmente accade, e non possiamo ignorarlo, bisogna resistere e agire con decisione ferma, disarmata e disarmante. Bisogna farsi sentire e capire più forte dagli indifferenti e, peggio, dai nuovi entusiasti pronti a cantare «i missili che portano la pace» (versione altrettanto cieca e violenta dell’orribile «guerra sola igiene del mondo» di Marinetti e compari). Bisogna incalzare chi ha potere e dovere, ma non ascolta e non fa. Anzi semina guerra e inzeppa il mondo di armi. I bambini lo sanno, e noi?
Sono dati da brividi, soprattutto se si pensa che basterebbe meno del 10% di quella cifra, cioè 200-220 miliardi di dollari all’anno, per finanziare una buona volta decentemente il Fondo di compensazione per i Paesi più poveri per procedere tutti insieme, nord e sud del mondo, nella reazione attiva alla crisi climatica globale oppure per debellare per davvero – come continuano a invocare le agenzie dell’Onu, Fao e Pam – lo scandalo feroce della fame di circa 800 milioni di esseri umani.
Dicono: ma le armi servono per impedire le guerre. Si chiama “deterrenza”: arsenali pieni per tenere lontani i “nemici”, per minacciare e scoraggiare i “cattivi” (che ci sono e sono ben riconoscibili quando aggrediscono con le più diverse motivazioni e scuse, ma – come ci rammenta il Papa – non stanno mai da una parte soltanto). Provate a immaginare la mappa del nostro pianeta non seguendo solo la linea dei mari, delle pianure, dei fiumi delle montagne, delle foreste, delle città e dei borghi, ma vedendo e annotando a una a una le 184 guerre grandi (una sessantina) e piccole (ma è mai “piccola” una guerra per chi ne subisce l’onda assassina e distruttiva?) che insanguinano l’umanità e avvelenano la Terra. Guardate quella mappa sfigurata dalla violenza e davanti a tanta straziante complessità fatevi una domanda molto semplice: l’esplosione della spesa militare, l’ombra sinistra delle armi atomiche e degli altri ordigni di distruzione di massa, il dispiegarsi di intelligenze artificiali che co-governano o governano del tutto sistemi d’arma elementari o di impressionante articolazione e capacità di annientamento ha forse portato più pace o ha invece e incessantemente alimentato la guerra? Impossibile negare la realtà. I fatti sono tenaci, e terribilmente eloquenti. E ormai abbiamo imparato che se il mondo non è in pace, neanche noi lo siamo (per quanto ci illudiamo e per quanto ci siano risparmiate, e non è affatto poco, le sofferenze più gravi).
La lettrice e i lettori con cui dialogo oggi affermano, in modi diversi, una stessa verità e danno voce a uno stesso impegno morale, spirituale e civile. A Rocco Cangialosi confermo ciò che ho appena richiamato: che l’industria delle armi e la spietata legge del profitto e della moltiplicazione della domanda (di guerra e, comunque, di scontro) che la regge non produce affatto sicurezza e pace, e “Avvenire” il 29 marzo scorso, Venerdì Santo, sotto al forte titolo di prima pagina «La logica delle armi» ha documentato ancora una volta il deliberato e calcolato Calvario sul quale si continua a crocifiggere Cristo e l’umanità.
Maria Teresa Martini, poi, fa bene a ricordarci che le armi avvelenano e uccidono anche chi le rivolge contro altri. La vicenda dei proiettili all’uranio impoverito, usati con certezza anche da noi occidentali in tutte le guerre dell’ultimo quarto di secolo, con tanti malati e morti anche tra i soldati italiani, lo sottolinea in modo drammatico. Teniamo sempre a mente che i primi a rompere il muro del silenzio su questa storia rivelatrice furono i colleghi giornalisti Antonio Maria Mira proprio qui su “Avvenire” e Alessandro Farruggia sul network di testate “Il Resto del Carlino”, “la Nazione” e il “Giorno” che oggi si chiama QN.
Matteo Cherubini ha, a sua volta, ragione a rimetterci sotto gli occhi la tragedia della guerra del Kosovo e dei bombardamenti Nato – senza mandato Onu e senza dichiarazione di guerra – su Belgrado e sulla Serbia, un conflitto con troppe vittime innocenti tra sebi e albanesi kosovari che provocò – come ho rammentato in più occasioni – il primo cambiamento di fatto dei confini di uno Stato europeo, dopo la fine della guerra fredda, compiuto in nome di un principio etnico (la prevalenza in quel territorio del gruppo albanese su quello serbo). Una ferita ancora aperta che Vladimir Putin usa come “precedente” per motivare le sue guerre vecchie e nuove in Georgia (2008) come in Ucraina (da dieci anni, non solo da due). Certo il leader serbo di allora Slobodan Milosevic, morto in circostanze ambigue in cella, era per davvero un cattivo ed è stato assolto dalla Corte Penale internazionale solo per «insufficienza di prove», mentre suoi stretti collaboratori e alleati sono stati condannati all’ergastolo per i «crimini contro l’umanità» compiuti in una delle altre guerre nell’ex Jugoslava, quella che ha massacrato i popoli della Bosnia-Erzegovina, ma ancora oggi contingenti Nato vengono mantenuti in Kosovo per impedire, in sostanza, che la minoranza serba ancora lì residente venga spazzata via... Facciamo fatica a fare i conti con la storia degli errori e degli orrori (commessi anche da noi occidentali), ma la storia non si cancella, ci parla e ci interroga – amplificando la voce della coscienza – sin dentro la cronaca dell’oggi.
A Vito Melia, appassionato insegnante, dico infine grazie perché ancora una volta ha saputo indicare un cuore essenziale del problema: ciò che le armi fanno ai bambini e al mondo che i bambini abiteranno. La guerra di Gaza è in corso da sei mesi con decine di migliaia di morti civili palestinesi provocati dalle truppe israeliane dopo la strage e la presa in ostaggio di molte centinaia di innocenti israeliani perpetrata dai miliziani di Hamas. La realtà atroce che vediamo torna a gridarci in faccia che i piccoli e le piccole sono vittime principali, nella carne, delle bombe e dei cecchini e, contemporaneamente, nell’anima sono vittime del veleno odioso inoculato o letteralmente sparato dalle ingiustizie e dalle violenze subite. La guerra è un mostro che fa a pezzi il presente e divora il futuro.
Una mamma e nonna, venerdì sera, a Lodi mi ha consegnato una confidenza che con discrezione e convinzione, senza rendere identificabile nessuno, condivido oggi con coloro che mi leggono. Un suo nipotino, dieci anni appena, pochi giorni fa le ha raccontato di come lui e i suoi compagni di scuola avessero parlato, in classe, con gli insegnanti e tra di loro delle guerre in corso e della pace che non si riesce a fare, concludendo con una frase triste che l’ha scossa profondamente e motivata ancor di più a fare tutto il possibile per fermare la corsa al riarmo e alla blindatura della condizione di guerra dell’Europa e del mondo. «Nonna, ti voglio tanto bene, ma so che tu morirai prima di me e dunque forse non farai la guerra che c’è dappertutto. Ma credo che a me toccherà proprio di farla questa guerra...».
No, non deve toccare a lui, ai nostri figli e figlie, ai nipoti e alle nipoti. No, non deve toccare più a ogni figlio e figlia, di ogni Paese, di ogni continente. E poiché invece accade, terribilmente accade, e non possiamo ignorarlo, bisogna resistere e agire con decisione ferma, disarmata e disarmante. Bisogna farsi sentire e capire più forte dagli indifferenti e, peggio, dai nuovi entusiasti pronti a cantare «i missili che portano la pace» (versione altrettanto cieca e violenta dell’orribile «guerra sola igiene del mondo» di Marinetti e compari). Bisogna incalzare chi ha potere e dovere, ma non ascolta e non fa. Anzi semina guerra e inzeppa il mondo di armi. I bambini lo sanno, e noi?