Per la seconda volta in poche settimane voci della Rete che frequento abitualmente mi spingono ad andare su Netflix, scaricare il lungo video «Springsteen on Broadway», correre alla terza ora dello spettacolo che l'artista ha replicato in un teatro di New York per un anno intero e vedere/udire il suo memorabile Padre nostro. La prima voce è stata quella di Luigi Rancilio, con un post sul suo profilo Facebook, il 17 dicembre ( tinyurl.com/y4gwqrvp ). L'altra è stata quella di Giovanni Chichero, ospitato ieri dal blog di Costanza Miriano ( tinyurl.com/y66a763r ). Non sono un fan di Bruce Springsteen ma mi rendo conto che è un caso che non lo sia diventato; d'altra parte un mio recente incontro con i libri di Luca Miele e di Andrea Monda (quest'ultimo rivolto agli studenti) mi ha ampiamente convinto sull'intensità con la quale temi e moti della fede in Cristo attraversano l'opera di questo autore. Eccomi dunque davanti allo schermo. Impossibile non lasciarsi sedurre dai sette minuti esatti del monologo a conclusione del quale Springsteen prega la preghiera che il Signore ci ha insegnato, e non dare ragione ai due recensori. A Chichero, che parla di «frasi che oggi assumono per lui un diverso e più grande valore», di «una preghiera sussurrata intensamente», come a voler dire che «è lì dentro che si trova tutto il sale della nostra storia». A Rancilio, che spiega che quel Padre nostro è enorme «perché arriva al culmine di un ricordo disperato», e che quelle parole, mal sopportate quando «gli venivano fatte recitare nella scuola cattolica che frequentava», sono divenute oggi «una sorta di inevitabile approdo» . Approdo della nostalgia di un uomo di settant'anni per un grande albero «amico d'infanzia» e creduto immortale, cioè per le persone e le cose che non sono più. «Ma le anime sono testarde, non se ne vanno così velocemente. Le anime restano. Restano nell'aria». Andarle a trovare con il ricordo è «come una preghiera», dice l'artista. «Sapete, è per questo che cantiamo».
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