venerdì 25 ottobre 2013
Chi scrive, come forse tanti superstiti della sua generazione, ha alle spalle una civiltà contadina. A suo tempo, più che altro l'abbiamo detestata: era il vecchio che (ci pareva) si opponeva al nuovo. Non ne sopportavamo molti aspetti, molti lasciti, credo anche a ragione. Ma l'Italia è variegata: la cosiddetta civiltà contadina era un genere con non poche specie diverse. Uso l'imperfetto perché quella civiltà adesso non esiste più. Comunque, in Emilia (mettiamo) e in Sardegna non era la stessa cosa; a parte qualche tratto fondante. Io vivevo (come tuttora vivo) in Sardegna: dove i contadini veri e propri dovevano fare i conti, spesso perdendo, con i pastori.Poi dagli anni 60 abbiano assistito, in Sardegna, alla faticosa nascita d'una cultura industriale, e operaia, specie petrolchimica. Le ho dato un bel po' della mia anima, con un eccesso di speranze. E adesso ne soffro i fallimenti: sono anch'essi il segno che il mondo in cui credevo è finito. Ma non vengo di là: i cerchi più interni del mio tronco sono fatti di terra. I segni e le parole che più mi appartengono, nell'oscurità delle radici, sono quelli dei remoti lavori della terra. E sono grato quando qualcuno di quei segni e di quelle parole mi torna, involontariamente, alla memoria. Nulla sento, forse, altrettanto mio.
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