venerdì 11 novembre 2022
Uno dei rimpianti più grandi della mia vita è quello di non aver approfittato a dovere dei maestri che ho incontrato e che mi hanno in qualche modo preso in considerazione e aiutato (ero un maestrino di provincia ignorante, ma entusiasta). Uno di questi è Ignazio Silone, nel cui ufficio ho lavorato per molti mesi, quando, dopo aver preso parte allo sciopero a rovescia dei disoccupati di Partinico organizzato da Danilo Dolci, avevo avuto un foglio di via, in quanto minorenne, e non potevo tornar giù, anche se lo feci infine clandestinamente. Con Ebe Flamini, segretaria dell’Associazione per la libertà della cultura fondata da Silone, organizzavamo le azioni di solidarietà con gli arrestati giù in Sicilia. (Fu lì che conobbi Leonardo
Sciascia, che aveva appena pubblicato Le parrocchie di Regalpetra). Silone parlava poco – Chiaromonte lo chiamava “il rustico” - ma in compenso lessi allora avidamente i suoi libri, e mi innamorai di uno in particolare, un testo teatrale che aveva derivato dal romanzo Vino e pane ed era stato pubblicato dapprima in Svizzera dalla Ghilda del Libro di Lugano (1944), poi dalla Documento di Roma nel marzo del 1945, prima che la guerra finisse. Si tratta di Ed egli si nascose (il titolo è da Giovanni XII-36). Che mi ricordi, Silone ha affrontato il teatro solo un’altra volta e stavolta con maggior successo con un testo bellissimo, L’avventura di un povero cristiano, un grande affresco storico fortemente attualizzato sulla vicenda ben nota del “gran rifiuto” di Celestino V. Fu messo in scena raramente, credo a San Miniato da Orazio Costa. Un affresco che oggi è ancora di un’attualità tremenda. Come sa bene Francesco che di recente è andato all’Aquila ad aprire la porta santa della Perdonanza. Di fatto Ed egli si nascose è un testo politico: si svolge sotto il fascismo in un paesino abruzzese, dove torna, a riorganizzare una minoranza di antifascisti perlopiù contadini, con tutte le loro difficoltà d’epoca e di convinzioni. Dice nell’introduzione Silone, che si è sempre definito «cristiano senza chiesa e socialista senza partito» che «nel dramma moderno interviene con sembianze di un protagonista un elemento nuovo: il proletario» (ma in Italia a farlo credo sia stato lui per primo!). «Non nuovo perché esso mancasse nell’antichità, ma perché la sua pena e il suo destino non erano allora considerati materia di storia, di pensiero o d’arte». E aggiunge: «Se a noi moderni la condizione di questo personaggio appare la più vicina alla verità umana, è perché in fin dei conti tra gli antichi e noi c’è stato Gesù». Più avanti: «La riscoperta dell’eredità cristiana nella rivoluzione sociale dell’epoca moderna resta l’acquisto più importante delle nostra coscienza negli ultimi anni», ché un socialismo senza un fondo di forte religiosità non basta, e già non bastava allora. Qualche editore dovrebbe ristampare questo capolavoro misconosciuto di un grande «cristiano senza chiesa e socialista senza partito», che fortemente credeva che senza cristianesimo e socialismo non resta che, diceva, “il nichilismo di massa” conquistato dalle trappole del capitale. © riproduzione riservata
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