Il vicequestore Schiavone riparte disilluso e sofferente
giovedì 27 febbraio 2025
Un omicidio ad alta quota camuffato da disgrazia ha dato il via il mercoledì in prima serata su Rai 2 alla sesta stagione di Rocco Schiavone, la serie sul vicequestore di Polizia nato dalla penna di Antonio Manzini, che lo ha immaginato, nei propri romanzi prima ancora che in tv, come un uomo con un senso etico tutto personale, che raramente coincide con quello che un poliziotto dovrebbe avere. Schiavone, romano de Roma, trasferito ad Aosta per motivi disciplinari, è sboccato, sarcastico, maleducato e cinico, con un passato oscuro e molti scheletri nell’armadio: è un giustiziere contro giustizia, un modello sbagliato di tutore dell’ordine, amico di malviventi e fumatore di canne (questione oggetto di polemiche politiche anche recenti); depresso e malinconico è spesso impegnato a fare i conti con se stesso, con il passato e i relativi fantasmi, anche quelli «reali» come l’amata moglie Marina (Miriam Dalmazio), uccisa in un agguato anni prima di cui si è scoperto responsabile addirittura un amico di Schiavone. Lei, Marina, che continua a vivere nella mente del marito che la immagina viva e più bella che mai, un angelo custode più che un fantasma, è la sola che riesce a penetrare la scorza dura del vicequestore che non ama il suo lavoro, ma ha il pregio di un intuito eccezionale per capire le persone e risolvere i casi di omicidio. Cosa che puntualmente si verifica nel primo episodio stagionale che di delitti ne comprende addirittura due: uno sulle innevate montagne della Val d’Aosta e l’altro nel centro di Roma. Mentre non basta un’intera puntata, quella di ieri sera, per arrivare a stabilire chi sia stato a uccidere e seppellire in un bosco nei pressi di Aosta un bambino di dieci anni. Lo scopriremo la prossima settimana. Intanto, il Rocco di questa stagione, forse più maturo, ma non per questo meno disilluso, sembra ancora più sofferente per le vicende personali e professionali, ferito e stanco, con l’immancabile loden addosso, le polacchine ai piedi e la sigaretta in bocca, con il volto emaciato e l’andamento dinoccolato di Marco Giallini, l’attore ideale per prestare (grazie alla sceneggiatura firmata dallo stesso Manzini e da Maurizio Careddu e sotto la regia di Simone Spada) espressione e corpo a un personaggio segnato da tanti conflitti e sfumature interiori. Forse, accanto a lui, risultano un po’ troppo macchiettistici alcuni dei suoi collaboratori (vedi Mimmo D’Intino, Michele Deruta e Ugo Casella rispettivamente Christian Ginepro, Massimiliano Caprara e Gino Nardella), anche se spetta a loro il compito di sdrammatizzare le situazioni e alleggerire la tensione. Lo stesso dicasi per il medico legale, più correttamente l’anatomopatologo, Alberto Fumagalli (Massimo Reale), che fa le autopsie mentre mangia e in fatto di volgarità, con la sua parlata toscana, non è da meno del vicequestore trasteverino. © riproduzione riservata
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