domenica 10 marzo 2024

Caro Marco Tarquinio,
non ho troppe parole da dire, vorrei solo chiedere perdono, come uomo, come cittadino italiano ed europeo al Dio dei viventi, all’umanità ferita e uccisa e alla terra devastata dalle guerre. Perdono, per il dolore e la distruzione, per le vittime e l’odio, per le divisioni e gli sfollati, per gli affamati, i profughi e i bambini a cui è stato tolto il futuro. Perdono, per la dignità sottratta a interi popoli e il sangue versato nel nome di interessi economici e geopolitici che hanno prevalso sull’intelligenza di capire e cercare con tenacia soluzioni, diverse dalle armi, ai conflitti e alle controversie tra gli Stati. Perdono, per i rappresentanti politici del mio Paese e per quelli dell’Unione Europea che, pur esterni alla guerra, invece di cercare con volontà e fermezza soluzioni negoziali e di compromesso, parola cara a Gandhi, a favore della vita popo-li, hanno preferito astensioni, veti, apatie, delegittimazione di ogni proposta di pace, indifferenza o ridicolizzazione delle richieste di “cessare il fuoco”, comprese quelle ribadite con forza da papa Francesco, alimentando di fatto la guerra, legittimando massacri, fornendo armi sempre più potenti e ripudiando le vie di pace. Perdono per la Commissione di Bruxelles, perché martedì scorso, 5 marzo, ha offerto ai Paesi Ue un piano per aumentare la capacità produttiva dell’industria militare europea, affinché possa passare al più presto a un regime di “economia militare”. Una beffa, nella “Giornata internazionale per la consapevolezza sul disarmo e la non proliferazione delle armi” che ricorreva proprio il 5 marzo, confermando ancora una volta la scelta della guerra e il disconoscimento dei processi di disarmo. Ma il disarmo è il dovere morale e l’unica via che può garantire sicurezza per il futuro dell’umanità e del pianeta.


Francesco Masut


Caro Marco Tarquinio,

da obiettore di coscienza che svolse il Servizio civile negli anni 1980-81, continuo a riflettere sull’indagine a proposito delle motivazioni al Servizio civile di cui “Avvenire” ha dato conto qualche mese fa. Ho preso atto, infatti, che il Sc in Italia ha perso ormai completamente il significato che lo legava, alle sue origini, con l'obiezione di coscienza al servizio militare. Il 23% dei giovani sceglie oggi il Sc per «fare nuove esperienze», il 32% per «crescita personale e formazione », il 26% «per tentare un ingresso nel mondo del lavoro». Nelle risposte date dai giovani intervistati il legame tra il Sc e la difesa dello Stato non emerge in nessun caso. Certo bisognerebbe sapere se, nei questionari della ricerca, questo legame sia stato proposto nelle possibili modalità di risposta. Se così non fosse ciò è segnale che, non solo i giovani, ma anche gli Enti di Servizio civile forse non tengono più nel debito conto tale caratteristica originaria di questo importante istituto. Svolgere il Sc ha significato per la mia generazione (sono nato, come lei, caro Tarquinio, nel 1958) una modalità attraverso la quale assolvere al dovere di difesa che l'art. 52 della Costituzione definisce «sacro dovere del cittadino». Questo servizio si configura, quindi, come forma non armata di difesa (vedi l'art. 1 comma 1 del d.lgs. n. 77 del 2002 che definisce il «Servizio civile nazionale quale modalità operativa concorrente e alternativa alla difesa dello Stato, con mezzi e attività non militari »). È vero che anche nei primi anni di attuazione del Sc solo pochi enti impegnavano i giovani in azioni legate direttamente alla difesa, ma certamente la formazione alla nonviolenza e alla costruzione della pace era quasi sempre prevista e si cercava per lo più di collegare a queste tematiche gli ambiti di impegno sociale in cui lavoravano i giovani servizio- civilisti. Questa situazione è certamente stata accelerata dalla legge 226/2004 che ha sospeso l'obbligatorietà del servizio di leva e che ha reso pertanto inutile la dichiarazione di obiezione al servizio militare da parte di quei giovani che volessero assolvere a quell'obbligo costituzionale in forme e modalità non armate. Oggi, nel clima di giustificazione assoluta della guerra, che contraddice un altro importantissimo articolo della nostra carta fondamentale, l'art. 11 che «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» sarebbe oltremodo utile valorizzare le esperienze, per fortuna ancora presenti, di sperimentazione di forme di difesa nonviolenta in situazioni di conflitto all'interno del Paese (si pensi a certe periferie dominate dalla criminalità organizzata) e all'estero come testimoniano i giovani di Operazione Colomba, corpo civile nonviolento dell'Associazione Papa Giovanni XXIII. La stessa associazione, assieme ad altre, si è fatta promotrice di una campagna per l'istituzione di un Ministero della Pace, obiettivo che potrà sembrare irrealizzabile, ma che certamente richiama tutti coloro che si oppongono alla guerra a declinare politicamente le proprie aspirazioni ideali. Le istituzioni e i partiti politici non dovrebbero, dal canto loro, consentire che alla pace si provveda con soli mezzi mi-litari, creando concrete occasioni per sviluppare e sperimentare nel tempo storico presente ciò che i padri costituenti avevano indicato con grande sapienza.

Enzo Sanfilippo

La perdita di memoria sembra essere l’altra “pandemia” del nostro tempo. Un morbo dilagante e retoricamente evocato, ma in realtà sottovalutato. Come se a fronteggiarlo bastasse qualche sporadica iniezione di ricordi e questa o quella Giornata ben (o mal) organizzata. La conseguenza è un impoverimento radicale che amputa la storia comune e le vicende familiari, rende evanescenti persino le cicatrici e incomprensibili le Feste con la maiuscola, laiche e religiose. È contrastato da buoni specialisti, da appassionati insegnanti e divulgatori, da donne e uomini curiosi e consapevoli, ma contagia tanti e riguarda tutti, a ogni età, in alto e in basso nella scala dei poteri e dei doveri politici e sociali, e affligge anche i cosiddetti grandi della Terra con l’appassionata e incalzante eccezione del Papa. Come giudicare altrimenti la decisione della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen di articolare proprio il 5 marzo, Giornata del disarmo, la sua proposta per un vasto piano di potenziamento della produzione di armi in Europa per dare impulso ai progetti di riarmo degli Stati membri e rifornire ancora di più la fucina delle guerre in corso? Smemoratezza stridente e provocatoria oppure stupefacente senso dell’inopportunità? Fa bene il lettore Francesco Masut a sottolinearlo con finezza e infinita amarezza. È come se la presidente Von der Leyen avesse annunciato un piano per l’apertura di nuove centrali energetiche a combustibili fossili nella Giornata dell’Ambiente... Certo, stavolta, la perdita riguarda non la memoria profonda, ma la memoria recente.

La Giornata del disarmo (anzi la “Giornata internazionale per la consapevolezza del disarmo e della non proliferazione” nell’intitolazione ufficiale votata a dicembre 2022 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a partire da una proposta del Kazakhtan) si celebrava quest’anno per la seconda volta appena. Ma questa è un’aggravante, considerato lo stato del mondo, segnato dal gonfiarsi continuo del mercato delle armi e dal moltiplicarsi delle guerre. Una condizione che richiederebbe non una, ma una serie mozzafiato e, finalmente, spezzaspirali di Giornate del disarmo.

Scuote e sconcerta, insomma, che proprio il 5 marzo una delle voci più rappresentative dell’Europa comunitaria non abbia saputo nemmeno accennare alla necessità di costruire e radicare insieme e accanto alla difesa armata, che i princìpi dei nostri ordinamenti ci impongono non solo efficiente ma non aggressiva, anche una difesa disarmata e nonviolenta basata su una rete di Corpi civili di pace che si distenda per l’intera Ue e si metta al servizio dell’umanità intera. Un braccio nonviolento dell’Unione al quale possono dare proporzione e forza esperienze di Servizio civile ben motivate e ben svolte negli Stati membri.

È esattamente la dimensione richiamata dal lettore- obiettore (e mio perfetto coetaneo) Enzo Sanfilippo nel suo intenso ragionamento sulla nebbia che sembra aver avvolto, in Italia, il Servizio civile universale e anche la bella ed esigente stagione in cui si affermò l’obiezione di coscienza al servizio militare: via maestra per tanti che quella scelta arrivarono a compiere, pagando all’inizio il prezzo esorbitante dell’incarceramento, e pietra di paragone, cioè motivo di riflessioni mai facili, per non pochi altri che quella prospettiva, cioè l’impegno ad adempiere senz’armi al «sacro dovere» di cittadinanza della «difesa della patria», lo maturarono definitivamente negli anni successivi. Io, che la divisa la vestii e mi addestrai all’uso delle armi, mi considero un buon ultimo, pur avendo sempre tenuto cara la scelta della nonviolenza e avendone ammirato e amato con sincerità i seminatori inermi e quasi sempre martiri. Mi ha aiutato nel cambiamento il mio mestiere di cronista, che mi ha imposto di attraversare a occhi aperti lunghi anni piagati da guerre viste o ignorate, dimenticate o al contrario esaltate, ma sempre tragicamente e cinicamente usate per giochi di potere e d’affari sulla pelle di un’umanità privata di voce, speranza e vita. Per questo non riesco a rassegnarmi al nuovo deragliamento bellico-affaristico in atto e alla tendenza a lasciar risucchiare la nostra «casa comune » e i popoli che la abitano verso l’incubo nero che insanguinò il cuore del Novecento: il nostro mondo più connesso, più fragile e più potentemente armato, sino all’apocalisse, non può permetterselo. Per questo non dobbiamo dimenticare e mancare di testimoniare ciò che abbiamo visto, rivisto e capito per decenni: tutte le guerre sono sconfitta e nessuno può più illudersi di vincerle. E chi dice il contrario mente sapendo di mentire. In una mano ha il ritorno dei bandi di arruolamento dei nostri figli e delle nostre figlie, soprattutto dei più poveri, e nell’altra l’innesco della Bomba.

Coloro che non hanno memoria e ritengono delle memorie di poter fare a meno, spesso usano male il presente e rischiano di guastare il futuro, ripetono errori evitabili e sciupano occasioni, non dànno giusto valore a conquiste importanti. L’esempio, a questo punto, è spontaneo e tutt’altro che casuale. Una delle cose che ferisce di più quanti si sforzano di conservare un po’ di memoria è la superficialità e l’ostilità con cui si parla di obiezione di coscienza in questa fase della nostra vita sociale e politica. La si svaluta e la si contesta, quasi fosse una scelta di comodo.

Formulare un’obiezione di coscienza è, al contrario, cosa dura e seria, molte volte costosa. Mette una persona nella sua individualità, persino quando non è affatto sola, in una condizione di isolamento e di potenziale vulnerabilità anche solo polemica. La contrappone agli imperativi di una norma o del pensiero dominante e alle azioni e reazioni del potere costituito. Ecco perché l’OdC è un termometro prezioso per valutare lo stato di salute di una democrazia e comunque di un consorzio umano. OdC, per fede e ideali, avvengono coraggiosamente in molti Paesi, anche là dove – a differenza del nostro pezzo di mondo italiano ed europeo – il loro esercizio non è presidiato da un riconoscimento effettivo. Ma in nessun luogo del pianeta, nemmeno in Italia, l’obiezione di coscienza a determinate pratiche o imposizioni (dallo sviluppo e uso dei sistemi d’arma all’aborto) è invocabile senza un contesto e, sovente, con limiti precisi (come alcune sentenze della Corte europea dei diritti umani hanno ribadito) . Dunque, gli obiettori o le obiettrici si assumono ancora e consapevolmente, in tutto o in parte, un rischio personale, incombente e reale. Oggi, per averlo chiaro, basta considerare la sorte degli obiettori alla guerra in Russia e in Ucraina. In entrambi i Paesi finiscono in tribunale e ne escono condannati. Teniamolo a mente. La strada per la pace nella giustizia e nella libertà è lunga, per questo bisogna prenderla prima possibile, cioè subito.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI