Nostro padre aveva cominciato a fumare quasi bambino, la sigaretta faceva parte della sua fisionomia. Tanto che io e mio fratello, da piccoli, una volta gli avevamo regalato per l'onomastico delle sigarette dal bocchino dorato. Non gli piacevano: ma aveva inscenato uno straordinario gradimento. (Quando è morto mia madre mi ha dato il suo antico portasigarette egiziano, d'argento: ce l'ho qui davanti, sullo scaffale, se mi va di straziarmi). Non giunse a diventare vecchio, la vita devastata dalla terribile perdita d'un figlio. Negli ultimi suoi anni, gravemente ammalato, doveva assolutamente smettere di fumare. Ci aveva provato, per accontentarci: ma la dipendenza e l'infelicità avevano prevalso. Sicché fumava di nascosto: abitavamo in appartamenti attigui e di notte mi capitava di vederlo, affacciato alla finestra del suo studio, la sigaretta accesa nel buio: ci ritraevamo di colpo, io e lui. Toccò a me accompagnarlo a Milano, per un intervento chirurgico che non poteva salvarlo. Non era mai salito su un aereo: «Sembra d'essere in camion», mi disse, in volo. Tornai a Milano più volte, e l'ultima per vederlo morire. Era intubato, non poteva parlare: gli dissi che, a conti fatti, il Cagliari aveva già vinto il campionato di serie A. Mi rispose con un gran sorriso, annuendo: lo sapeva.
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