Se sto alla lettera delle parole consegnate lunedì da papa Francesco ai "suoi" del Dicastero per la comunicazione (Dpc) e a noi (c'ero anch'io) dell'Unione cattolica stampa italiana (Ucsi), in due successive udienze (vedi "Avvenire", bit.ly/2mO5x1Q e a p. 16 del cartaceo di ieri), trovo che i riferimenti diretti alla Rete sono rarefatti. Professionale quello all'Ucsi: «Nell'era del web il compito del giornalista è identificare le fonti credibili, constestualizzarle, interpretarle e gerarchizzarle»; pastorale quello al Dpc: «Vi incoraggio a favorire [nelle Chiese locali] anche la formazione di ambienti digitali, nei quali si comunichi e non solo ci si connetta». Mi pare un buon segno. Perché in realtà non c'è praticamente nessun passaggio dei tre discorsi (uno a braccio, uno scritto, uno scritto con qualche improvvisazione) che non dia indicazioni utili su come comunicare le storie degli uomini e quelle della Chiesa nell'ambiente digitale. Personalmente mi tengo cara la sottolineatura del bisogno di parole vere, a fronte di tante parole vuote (all'Ucsi) e quella, analoga, sul peso dei sostantivi a fronte della vanità degli aggettivi (al Dpc). Significa allora che la Rete non è più guardata come un "mezzo" della comunicazione da conoscere meglio mentre si va aggiungendo agli altri, ma che è, semplicemente, «l'attuale contesto comunicativo». Cosa che mi è saltata agli occhi anche confrontando questa udienza papale con una del 2008, nella stessa sala, cui partecipai con un gruppo non dissimile (partecipanti a un convegno dell'allora Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali). Pochi dei presenti avevano uno smartphone in tasca e non so se seppero mettere in relazione al loro dispositivo digitale l'accenno di Benedetto XVI allo sviluppo di «nuove reti al servizio della socializzazione umana». L'altroieri, all'ingresso nella sala di Francesco, abbiamo alzato sulle nostre teste una selva di telefonini e di lì a poco, mentre il Papa ancora parlava, immagini e post e like fioccavano sui nostri profili social.
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