giovedì 4 ottobre 2018
A pochi artisti capita di definire uno stile: Federico Fellini è stato uno di questi. A venticinque anni dalla morte (l'anniversario cadrà il 31 ottobre: il regista era nato a Rimini, la città che rimarrà il centro della sua poetica, il 20 gennaio del 1920) basta pronunciare l'aggettivo "felliniano" per evocare un mondo di eccessi e di tenerezza, di sensualità esibita e di minimi indizi dai quali si risale all'impalpabile dominio dei sentimenti, dell'umanità condivisa, dell'anima. Anche Fellini è diventato pienamente felliniano con il tempo, attraverso i grandi film della maturità – da 8½ ad Amarcord, da Giulietta degli spiriti a Ginger e Fred – nei quali il tema della finzione diventa la materia stessa del racconto. È stato il dono di Fellini, questo di riuscire a riprodurre la realtà all'interno di uno studio cinematografico, ma è stato un dono rischioso e dispendioso, che negli ultimi anni si trasformò in qualcosa di simile a una condanna. Dopo l'esito contrastato di La voce della Luna, i produttori non erano più propensi a investire somme troppo ingenti nel complesso macchinario richiesto da un'opera del Maestro. Dire che Fellini, alla fine, era rimasto imprigionato nel suo stesso sogno felliniano può sembrare esagerato, ma è un modo per dare senso a una parabola altrimenti contrassegnata dall'amarezza.
La questione del senso – che dev'essere uguale per tutto nell'universo: per i sassi abbandonati al bordo di una strada così come per le stelle che brillano in cielo – è indicata con chiarezza da Fellini già con La strada, che nel 1954 segna la sua affermazione sulla scena internazionale, anche grazie all'Oscar per il miglior film straniero vinto nel 1957. Il successo, dunque, non fu immediato. Inizialmente prevalsero le contestazioni di natura ideologica nei confronti di un film considerato troppo "cattolico" per essere veramente al passo con i tempi. Ora, è fuori discussione che nella favola dell'innocente Gelsomina (l'indimenticabile Giulietta Masina) e del brutale saltimbanco Zampanò (il volto e i pettorali sono di Anthony Quinn, ma al doppiaggio c'è la voce di Arnoldo Foà) agisca un intento morale, se non addirittura teologico. L'onere della disputa cade, com'è noto, sul personaggio del Matto (l'attore Richard Basehart), che è figura angelica e insieme vittima sacrificale, come notava già il principe dei critici cinematografici, il francese Georges Sadoul. È il Matto a porre la domanda sul senso dell'esistenza ed è ancora lui a rispondere invocando la categoria del mistero. Tutto il film, del resto, può essere interpretato come una rivisitazione del classico racconto della Bella e della Bestia, solo che qui Gelsomina non è bella, anche se porta la salvezza, e perfino Zampanò non è bestia del tutto, per quanto si comporti da animale.
Con il passare degli anni, però, l'attenzione dello spettatore è libera di concentrarsi su altri aspetti del film. Nella Strada incontriamo un Fellini ancora en plein air, che evita i teatri di posa per esplorare i luoghi nei quali l'Italia del dopoguerra non si vergogna a mostrarsi povera e ferita. Non è neorealismo in senso stretto. È semmai una forma molto particolare di neorealismo magico, alla quale contribuiscono in maniera non irrilevante gli sceneggiatori Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano. Il Signor Giraffa (interpretato da Aldo Silvani) è l'esempio perfetto di questo equilibrio tra osservazione e trasfigurazione del contesto sociale. Impresario di un piccolo circo di famiglia, è un uomo dignitoso fino al paradosso, fin quasi al sacrificio. La sua presenza è uno di quei dettagli che permettono a Fellini di essere felliniano fino in fondo, nel significato più nobile del termine.
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