Don Luigi Rovigatti, prete romano e poi per 9 anni vescovo di 4 diocesi diverse: così provvisorio che non ha mai avuto un suo stemma episcopale. A chi gli chiedeva replicava sorridendo: «E che ci metto, due “gatti” in mezzo ai “rovi”?» Nasce a Monza il 23 aprile 1912, presto con la famiglia a Roma, a 18 anni entra in Seminario ed è prete il 1° dicembre 1935. Viceparroco a Santa Lucia e alla Natività in via Gallia, poi in servizio al vicariato dal 1938 al 1947, tra guerra e ricostruzione: tanta sapienza pastorale l'avrà attinta da quel tirocinio di resistenza e sofferenza senza resa che caratterizzò in quegli anni la Chiesa diocesana di Roma. Lavora in vicariato, aiuta in varie parrocchie ed è assistente degli scout di Roma. Nel 1947 è parroco della Natività in via Gallia. Sua dote personale: metteva insieme tante cose che trovavi, ma divise, in molti altri, autorevolezza e cordialità amichevole, capace di leggerti dentro come pochi e di farti sentire insieme la sua vicinanza e la sua realtà di guida e consigliere. Un ricordo personale: qualche giorno prima della mia ordinazione mi prese sottobraccio per una lunga passeggiata nella via, dove tutti lo salutavano cordiali. Volle darmi in confidenza i suoi consigli da fratello maggiore. Eccoli: «Non trascurare la tua salute. Resta vicino ai tuoi genitori. Non consentire mai al denaro di restare attaccato alle tue mani». Il primo consiglio sorprende. Un certo stile di spiritualità malintesa può portare all'incuria di sé e della salute, e magari si pensa virtuosa. Il secondo era personale. Il terzo andava alla sostanza: ogni segno di fede nel Regno dei Cieli non accompagnato da vera povertà – già: povertà nello Spirito – è ambiguo e falsificabile. Straordinario anche – e torno al suo essere “parroco” modello – il modo di far convivere nella comunità presbiterale preti diversissimi. La sua cura per i viceparroci, quasi materna, è rimasta leggendaria. Voleva la partecipazione attiva dei fedeli alla celebrazione eucaristica, chiedendo di rispondere ad alta voce e di recitare Gloria, Credo, Pater Noster e Agnus Dei ancora in latino. Per l'interesse biblico celebri i suoi “gruppi del Vangelo” già negli anni '50, ogni lunedì alle 20 dando la parola a tutti, insieme uomini e donne, ragazzi e ragazze. Nel 1960 Giovanni XXIII lo volle nella ristretta Commissione per la riforma liturgica in preparazione al Concilio. Chiese, ed ottenne da sempre in parrocchia la piena collaborazione dei laici, con la nomina di un responsabile in ogni condominio, l'assistenza agli ammalati, la ricerca accurata delle situazioni di povertà spesso nascoste e l'organizzazione del Fac (Fraterno aiuto cristiano) in soccorso accurato e discreto… Quanto alla politica, mai mescolarsi ad attività di circoli di partito, ma formazione di laici preparati perché a titolo personale e coscientemente libero animassero in prima persona le attività temporali. Ancora: accurata preparazione a Prima Comunione, Confessione e Cresima dei ragazzi. Nella sua parrocchia la Messa al centro di tutto, partecipata dai fedeli laici. Omelia di spessore teologico e insieme pratico. Mai un cedimento alla prassi, allora in voga altrove con il predicatore che parlava mentre il celebrante continuava silenziosamente il rito fino alla Consacrazione, e spesso fino al Pater Noster. Altra sua prassi allora quasi esclusiva: ogni 31 dicembre riuniva la comunità per i rendiconti economici in mano a competenti laici a disposizione di tutti. Da vescovo in 9 anni trasferito 4 volte, ausiliare prima e infine vicegerente di una diocesi di Roma in via di orizzonti nuovi, non tutti positivi… Non se ne lamentò mai fino alla fine, quando una dura malattia lo portò via in pochi mesi, a 62 anni. La sera del 24 novembre 1974 Paolo VI volle visitarlo e confortarlo. Morì il 13 gennaio 1975 e il 13 giugno 1977 tornò per la sepoltura definitiva nella sua amata parrocchia della Natività in via Gallia. Mitezza, fedeltà a Cristo Signore e servizio al Popolo di Dio che è la Chiesa. Una “grazia” averlo incontrato…
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