Visto, sabato scorso, il gradimento per Benedetto XV, ancora un Papa: Gregorio XVI. Non doveva essere simpatico: un montanaro brusco e piuttosto ostile alle novità, e il suo tempo purtroppo ne fu pieno. Bartolomeo Alberto Cappellari, camaldolese col nome di fra' Mauro, già generale del suo Ordine, abate di san Gregorio al Celio e prefetto di Propaganda Fide, il 2 febbraio 1831 volle chiamarsi Gregorio XVI. La sua elezione, dopo un Conclave lungo, fu forse facilitata dalla notizia del giorno: a Modena un gruppo di ribelli aveva preso il potere. Li guidava un certo Ciro Menotti, che forse non fu mai informato del ruolo avuto in quel Conclave. Pochi giorni dopo, del resto, il cardinale Rivarola, uno dei grandi elettori di Gregorio, parlò del Conclave con queste righe che dicono il senso cristiano della Provvidenza, non solo nei Conclavi: «Il Papa lo fa lo Spirito Santo, ma non già – come immaginerebbe alcuno – che venga all'orecchio di ciascheduno a dirgli quello che vuole, ma lasciando che i messi umani disponghino le cose regolandole Egli, e conducendole all'adempimento dei suoi santi Decreti». Lui, papa Gregorio, aveva 66 anni, ed era anche autore di un'opera con questo titolo programmatico: «Sul trionfo della Santa Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori». Come carattere non era superbo, anzi. Raccontano che da novizio amava dirsi “lo stupido del Collegio”, e che forse per questo da Papa volle come segretario il laico, non prete cioè, Gaetano Moroni, ricordato da Gioacchino Belli con il soprannome ironico di “Ghetanino”, autore dei 103 volumi del “Dizionario di erudizione storico ecclesiastica”, famoso tra il popolino anche per una moglie che si diceva molto bella. Eletto in pieno Carnevale, Gregorio fu subito bersaglio delle critiche dei “cattivi” del tempo, come appunto il Belli, che in morte gli dedicò questa frase al veleno: «A papa Grigorio je volevo bbene, perché me dava er gusto de potenne di' male». Famoso, papa Gregorio, perché non volle sentir mai parlare della novità inaudita del tempo, il treno a vapore, ma anche – e questo oggi ci tocca – perché aprì alle vaccinazioni antivaiolo, fino allora guardate con sospetto. Non basta: accettò il sistema decimale per le monete, volle a Roma una Banca di Stato, sistemò la foce del Tevere e il porto di Civitavecchia, e pochi mesi dopo l'elezione provvide con grande energia e generosità alla ricostruzione dell'Umbria, dopo il tremendo terremoto del 26 ottobre 1831, che tra Foligno e Assisi distrusse anche la Porziuncola. Diceva, lui, di essere un povero frate poco informato di politica, dormiva poco, si alzava prestissimo e dopo la Messa passeggiava spesso fino a Ponte Mollo, oggi Ponte Milvio, o a Trastevere. Alla sua mensa voleva volentieri un bicchiere di vino, mormorando così: «Un goccio, ma di quel buono, non fa mai male a nessuno». Quindici anni di regno, fino al 1° giugno 1846, quasi 82enne. Il suo amico-nemico, Gioacchino Belli, pochi mesi dopo, paragonandolo al successore, Pio IX, lo rimpiangerà con simpatia: «Che ce facessi, è un gusto mio, fratello/ Su li gusti, lo sai, nun ce se sputa/ Sto Papa che c'è mo' ride, saluta/ è giovene, è ala mano, è bono, è bello/ Eppure er genio mio/ si nun se muta/ sta più p'er Papa morto, poverello!». Una riabilitazione: tardiva, forse, ma sincera.
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