In casa entra da sempre moltissima carta: libri, giornali e altro. Sino a un po' di tempo fa riuscivo a tenerla a bada. Ne davo via, ne gettavo (vincendo la radicata vocazione a conservare); e periodicamente mettevo ogni cosa al suo posto: stipando le tante librerie, controllando e smistando i documenti bancari e le ricevute. Ma da parecchio ormai trascuro di farlo: quanto arriva si ammucchia sulla scrivania, sulle sedie e perfino sul pavimento. Me ne resta un crescente, oscuro rimorso: reso più acuto a volte dalla ricerca vana di qualcosa che mi serve o dal crollo d'una catasta pericolante. Perché ne parlo? Perché questo disordine, questo Mar dei Sargassi in cui riesco sempre meno a muovermi, mi duole soprattutto per il suo peso simbolico: trovando dentro di me corrispondenza, magari inconscia, negli arretrati e negli insoluti dell'anima. Gli adempimenti omessi, materiali e morali, mi ossessionano suscitandomi il pensiero di quando - tempi non lontani - io non ci sarò più. Come si raccapezzeranno le mie figlie, cosa se ne faranno di tante carte che hanno senso, se mai, solo per me? E quale ricordo conserveranno di me? Talvolta mi capita di leggere nei necrologi parole di lode e rimpianto che suonano sincere. E provo una sorta di invidia: io alla fine non ne avrò meritate.
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