sabato 20 aprile 2024

Caro Marco Tarquinio, Lucas Odhiambo è un ragazzo che vive nella povera baraccopoli di Korogocho alla periferia di Nairobi. Nonostante la giovane età è già sposato, ma ancora studia. Si sveglia alle 4 del mattino per poter arrivare in tempo al college in cui è iscritto che si trova dall'altra parte della città perché non può permettersi di pagare l'autobus. I prezzi nell'ultimo anno sono triplicati. Per cercare di arrivare in tempo deve partire prima delle 5 del mattino dalla baraccopoli per essere alle 7 in città e poi sperare che qualche autobus scolastico in circolazione sulla sua strada gli possa dare un passaggio. Finisce alle quattro del pomeriggio e poi deve ritornare a piedi, per cena beve solo del tè con quattro cucchiai di zucchero per avere più energia possibile, poi dorme fino a mezzanotte dopodiché si sveglia per studiare fino alle 4 e poi riprende il giro. Quando la sera, prima di andare a dormire, mi crogiolo sui miei problemi penso a Lucas, alla sua forza e alla sua determinazione e mi vergogno. Ma so che questo è un privilegio, perché con il sistema dei media che c'è in Italia (esclusi i pochi coraggiosi come “Avvenire”) la maggior parte dei nostri connazionali non sa che cosa c'è fuori dal Bel Paese...

Fabrizio Floris


Caro Tarquinio, continuo a riflettere sulla questione della Scuola di Pioltello, e sono arrivato alla conclusione che, per un attimo, farei lo sforzo di mettere da parte le religioni, perché che in questo caso rischiano di essere “divisive” (non siamo sempre ad Assisi, dove esponenti di tutte le confessioni si sono riuniti più volte in preghiera per la pace). Piuttosto che sospendere le lezioni in occasione della festa di chiusura del Ramadan musulmano, come è stato fatto nella cittadina lombarda (legittima scelta del preside, d'altra parte), suggerirei al governo di istituire una nuova festa nazionale, laica, deamicisiana e in un certo senso patriottica. Una giornata in cui, a Roma il presidente della Repubblica, e, negli altri capoluoghi di provincia, i prefetti consegnino la cittadinanza italiana a tutti figli di immigrati che siano nati in Italia o che almeno da tre anni frequentino le scuole elementari, medie e superiori del nostro Paese. A questa festa nazionale di “iscrizione” all’anagrafe dei nuovi giovani italiani dovrebbero partecipare tutte le classi coinvolte. Vorrei, insomma, una grande festa nel segno dell'accoglienza.

Stefano Masino


Caro Tarquinio, le propongo alcuni spunti riguardanti il serissimo, duplice problema della denatalità e del processo di invecchiamento del nostro Paese. Sotto il primo profilo, quello della natalità, non è un mistero – lo dicono pure diversi sondaggi – che l’istituzione dell’assegno unico è stata subito bene accolta tra gli aiuti volti a far fronte alle spese per figli. L’assegno unico nella sua attuale configurazione decorre dal settimo mese di gravidanza. Io credo che sarebbe un messaggio estremamente incisivo a favore della vita nascente far decorrere l’assegno unico dal mese di inizio della gravidanza, naturalmente conservando la condizione della avvenuta nascita. Le risorse per coprire la spesa, se la volontà politica c’è, si possono trovare. E vengo al secondo punto, l’invecchiamento della popolazione. L’Istat ci informa che in Italia gli over65 anni sono ormai più di 14 milioni e rappresentano oltre il 24% della popolazione. La aspettativa di vita media in Italia è arrivata a circa 80,5 anni per gli uomini e quasi 84,8 anni per le donne. A me sembra che ciò significhi che gli over65 – ma anche gli over70, gli over75 e oltre – sono sempre più “giovanili”, stanno e vivono sempre meglio. Anche a me, perciò, sembrano anacronistiche – oltre che elettoralistiche – le norme tendenti ad anticipare l’età pensionabile, con tutti i problemi di copertura previdenziale. Si dice: ma questi pensionamenti consentono anche di fare largo ai giovani. La realtà che ci circonda è che la attuale e bellissima “giovanilità” degli over65 (e 70, e 75 e oltre) implica che costoro continuano a possedere una alta capacità di creare e offrire lavoro, di prestare collaborazioni e soprattutto di contribuire all’altrui formazione. Al di là dei lavori usuranti e delle situazioni, soggettive e oggettive, di maggior disagio fisico, occorre riflettere sulla opportunità e utilità di non rinunciare all’apporto di persone che favoriscono lo sviluppo equilibrato della società. Mi interessa la sua opinione sul posticipo della pensione, e la ringrazio per tutto quello che, anche attraverso il lavoro per “Avvenire”, lei ha dato alla società italiana e certamente continuerà a dare con la sua “giovanilità”...

Francesco Napolitano

Torno a porre al centro di questo dialogo domenicale il gran tema del “posto” e del rapporto dei giovani e dei vecchi nella nostra società. Una relazione essenziale che spezza alla base la catena degli individualismi esasperati e delle solitudini, cara, carissima, anche a papa Francesco e a uomini di fede, come Matteo Zuppi, cardinale presidente della Cei e padre nella Chiesa di Bologna, e d’alti ideali e doveri, come Sergio Mattarella, presidente della nostra Repubblica.
Qualcuno forse si stupirà, ma sono certo che tra i lettori abituali o anche solo intermittenti ben pochi saranno sconcertati dal fatto che abbia deciso di affidare l’incipit di questa pagina a una breve e bella lettera, quella di Fabrizio Floris, che ci porta in una periferia d’Africa assieme a un ragazzo che sogna (e fatica e studia) persino più che nella potente canzone di Roberto Vecchioni (tornata nella mente e sulla bocca di tanti con l’ultimo Festival di Sanremo). Dovremmo ricordacene sempre quando, dalle nostre parti, personaggi di parte (politica e mediatica) e di pessimo spartito raccontano l’Africa e gli africani come un giacimento di aspiranti assistiti nel nostro “benedetto” pezzetto di mondo...
Così come penso che ben pochi, tra quanti hanno seguito appena un po’ il mio lavoro d’Avvenire, saranno stupiti che per approfondire il ragionamento su giovani e vecchi mi sia affidato a un suggestivo suggerimento di Stefano Masino. Nella sua lettera, Masino propone di trasformare in una grande festa civile di (reciproca) accoglienza quel dramma dell’indifferenza e dello sciupìo d’umanità e di futuro che è la condizione di “cittadini non riconosciuti” in cui la decrepita legge vigente e la retorica anti-immigrati (che mescola slogan odiosi, miopie persino assassine di certa destra e assurde e complici pavidità politiche di sinistra) hanno confinato e confinano circa un milione di figli e figlie di stranieri residenti, figlie e figli – piaccia o non piaccia a qualcuno – di noi tutti. Giovani che sono già italiani: perché pensano italiano, parlano italiano, studiano italiano, giocano e cantano italiano, pregano e sperano italiano, vivono italiano... proprio come ogni altro italiano, uguale e diverso dentro il grande patto civico e repubblicano di cui, più o meno consapevolmente, siamo parte.
Qualcuno, infine, giudicherà temeraria la mia scelta di dar spazio come ulteriore perno di questa riflessione a più voci, una domanda diretta sull’opportunità di posticipare il pensionamento in un’Italia di “giovanilità” tenaci tra quelli e quelle della terza età. A quest’ultima domanda, che arriva dall’avvocato Francesco Napolitano, persona di straordinaria generosità e di limpido impegno per la vita più fragile e “imperfetta” secondo logiche escludenti sin troppo frequentate e affermate, domanda che mi riguarda anche personalmente, cercherò di rispondere con onestà. Anzi, mi concentro subito su questo punto visto che sugli altri ho già detto la mia anche solo richiamandoli.
Ho 66 anni e alle (e sulle) spalle più di 46 anni di lavoro, 43 nei giornali. Mi rendo conto di avere investito il grosso delle mie energie in altre stagioni della mia vita (come si dice, ho speso e mi sono speso), ma anche di aver imparato abbastanza dalle relazioni con gli altri e dal confronto con la realtà, accumulando una qualche esperienza. Penso che sia utile non tenerla solo per me, sebbene sappia di non sapere del tutto in quale modo potrò ancora dare il mio apporto. Strada facendo, infatti, ho constatato che non c’è un solo modo di invecchiare, cioè di vivere la sera della nostra esistenza terrena, e questo sia dal punto di vista lavorativo sia tra le mura di casa propria sia nelle comunità e nelle reti associative – religiose e/o laiche – di cui si è parte. Ma mi sono anche convinto del fatto che deve esserci un traguardo grossomodo uguale per tutti oltre il quale si ha il diritto-dovere di rallentare e, se lo si desidera, di fermarsi. Deve esserci un momento nel quale, comunque, ci si può dare diverse priorità, valorizzando dimensioni della vita privata e spirituale e anche dell’azione pubblica prima messe tra paretesi o mai sperimentate a fondo. Naturalmente, si ha anche la possibilità di continuare a offrire il proprio contributo sul piano strettamente professionale. Le regole previdenziali consentono di aggiungere nuove tappe al proprio percorso (meglio, ritengo, se con passo e modalità differenti).
Si può, dunque, spingere più in là il traguardo della pensione? È ovvio, nelle nostre società senescenti e in cui il rapporto giovani-adulti-vecchi si sta capovolgendo a causa dello sboom demografico. Del resto, sebbene le eccezioni (previste e sempre in cantiere) non siano affatto poche, questa operazione è già in atto attraverso meccanismi di graduale aggiornamento legati all’attesa media di vita di italiane e italiani. Ma il nodo resterà aggrovigliato ancora per un po’. Specialmente se non si sarà capaci di connettere, nella nostra modernità, questo problema a quello della coabitazione e della collaborazione tra le persone e le macchine. Sarà giusto e decisivo che le politiche dei consorzi umani, penso sia agli Stati sia alle aziende sia a ogni altra comunità di vita e di lavoro, abbiano come obiettivo non successi organizzativi e produttivi purchessia, propiziati da macchine sempre più efficaci, economiche e intelligenti – quelle di cui si è cominciato a disporre (e che cominciano a disporre di noi). Quelle politiche dovrebbero – dovranno! – avere al centro la preoccupazione di non rendere marginali e far sentire superflue – con processi di esclusione, impoverimento e manipolazione – le persone in ogni stagione dell’esistenza: giovinezza, età adulta e vecchiaia. L’occasione offerta dal connubio con le macchine è, come ogni rivoluzione, promettente e ambigua e (non solo) per me dovrebbe avere nel cuore la determinazione a sviluppare un gran lavoro per liberare l’uomo e la donna – le loro vocazioni e dedizioni, le loro passioni, la loro curiosità – e metterli responsabilmente al centro del mondo e dell’universo, la «casa comune» che «ci precede e ci è stata data» (Laudato si’). Un processo – l’ho già sostenuto molte volte attirandomi critiche e ironie, ma anche consensi – che passa da un’umana riappropriazione del tempo di vita di cui siamo capaci e della creatività (che è inseguimento e accoglienza e dono del buono, del bello e del vero) di cui abbiamo bisogno. In sostanza lavorare meno, lavorare tutti; fiorire di più, far fiorire ciascuno.
Vasto programma, già. Ma irrinunciabile. È infatti senza cuore, e persino agonizzante, una società che non ama i propri giovani, tutti i propri giovani, che non li accompagna e non li ascolta, non li mette in condizione di realizzarsi, e confonde magari l’ordine con il silenzio rassegnato e l’indignazione per l’ingiustizia con la sovversione criminale, che riduce il merito a criteri meritocratici e pone questo merito (anche immeritato) al posto del valore di ogni singolo dentro la comunità di cui è parte. Ed è senz’anima, e segnata dalla morte, una società che non rispetta, non valorizza e non cura i propri vecchi. Ma soprattutto è senza speranza e senza spinta propulsiva la società che non sa mantenere saldo e non s’impegna per rinnovare il patto tra le generazioni, che è frutto della consapevolezza di quanto ognuno sia limitato eppure indispensabile e della ricchezza rappresentata dal “noi” generativo che siamo capaci di realizzare. L’unica forza (e sinergia) che non andrebbe mai sprecata.

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