Può essere utile ripetere un piccolo esercizio spirituale. Ormai sono una costante del paesaggio mediatico (oltre che della realtà) gli arrivi per mare di disperati fuggiaschi dall'Africa e dall'Asia, dopo lunghi e pericolosissimi viaggi, spaventose traversate di deserti, infami quarantene in ricetti criminali dove si è esposti a ogni offesa. Ma c'è il rischio che quelle peripezie umane, al centro della storia del nostro tempo, vengano appunto assorbite dal paesaggio, fino a scomparire per assuefazione: che le richieste d'aiuto e gli urli di terrore dei moribondi diventino rumore di fondo. Per evitarlo può servire l'esercizio di cui parliamo. Basta un po' d'immaginazione: nell'assistere a quelle terribili avventure noi ne stiamo fuori, protetti da uno schermo poco costoso di pietà; dobbiamo invece tentare per un po' di viverle come in prima persona, mettendo noi stessi e chi più amiamo nei miserabili panni di tanti nostri simili assetati affamati terrorizzati: sulle vecchie barche stipate sino ad affondare (e infatti spesso affondano e molti affogano); dentro le carovane dominate dalla violenza che a prezzo di interminabili fatiche portano all'imbarco. E con alle spalle una vita che non consente alternative a un tale incerto e disumano transito verso una qualche minima, ignota speranza.
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