Giovanni Minzoni, nato nel 1885, terzo figlio di un piccolo gestore d'albergo a Ravenna. La città è fiammeggiante di anticlericalismo risorgimentale e socialista con toni anarchici. Studia in Seminario ed è prete nel 1909: sente il fascino dei tempi nuovi, l'eco della critica storico-biblica, i fermenti del cattolicesimo sociale, l'esigenza di dar voce ai cattolici anche in politica contro le resistenze del Papa e delle Curie, ed è contagiato dall'inquietudine di don Romolo Murri che mette in allarme la Chiesa. «Se pensassi che diventerete tanti Murri – proclama l'arcivescovo Morganti ai seminaristi – pregherei il Cielo che vi fulminasse in questo istante!». A Ravenna le chiese sono vuote, le Camere del Lavoro brulicano di operai e il giovane prete sogna: «Convertite un Marx in Paolo, e la questione sarà sciolta! San Paolo per tutti!». Il vescovo lo manda ad Argenta, grosso paese agricolo di braccianti socialisti e anticlericali, ma lui si guadagna le simpatie della gente: costruisce il ricreatorio per gli adolescenti lavorando con i muratori egli stesso, poi un doposcuola, una biblioteca circolante, un circolo per ragazzi e – inaudito! – anche per le ragazze, poi mette su gli scout… Con la Cooperazione sociale nella Unione Agricola cattolica realizza un laboratorio di maglieria per le ragazze. Lui, però, non è soddisfatto: il suo diario rivela le inquietudini. Ripensa all'educazione ricevuta, la trova ristretta e moralistica, vorrebbe qualcosa di meno formale. Scrive che nella Chiesa «ci vorrebbero preti più uomini, e magari meno santi…». La sua vita si concentra sempre più su Gesù Cristo, che ha resistito al male fino a donare la vita. Il suo motto, nel ricordino della prima Messa, e poi nel testamento, è «Frangar, non flectar»: (mi spezzerò, ma non mi piegherò). Studia a Bergamo scienze sociali, per agire meglio. La gente gli vuole bene e nel 1915, morto il vecchio parroco chiede ed ottiene, con un plebiscito anche di socialisti, anarchici e anticlericali che don Giovanni sia fatto parroco. Concesso! Ma arriva la guerra, e va volontario cappellano: torna con una medaglia d'argento al valore. Più vivace di prima, vicino alle speranze di quella che comincia a chiamarsi Democrazia Cristiana subito in rotta con il nascente fascismo che attira i giovani e strumentalizza i malcontenti. Nel 1923 si iscrive al Partito Popolare, che al Congresso di Torino ha fatto la scelta antifascista. Parla, protesta, agisce: organizza sempre meglio i suoi ragazzi, pensa ad un'azienda agricola a compartecipazione. I fascisti danno fuoco al suo circolo giovanile, e lui risponde con un convegno di zona cui arrivano ben 500 giovani. La gente lo segue, i fascisti lo detestano, e da Roma arrivano richiami. Il vescovo lo difende, e lui non si piega. Diventa una sfida. Accolta. Al tramonto del 23 agosto 1923, per strada, mentre cammina con Enrico Bondanelli, uno dei suoi ragazzi, arrivano due squadristi con le mazze di ferro: un solo colpo gli sfonda la testa. Il ragazzo, ferito, scappa. L'hanno “spezzato”! Un po' di strilli, anche in Parlamento: i più benevoli dicono che era un prete santo ed eroico, e che la politica non c'entra. Solo Il Popolo e La Voce Repubblicana accusano il regime nascente. Qualche arresto, un giudizio e l'assoluzione in istruttoria per la quale entra in campo Italo Balbo. Don Minzoni è archiviato: il ventennio comincia. Venticinque anni dopo, a guerra finita, ci sarà il processo ai due assassini: condannati a pene varie, ma subito liberi per l'amnistia firmata Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia. Don Giovanni Minzoni come il socialista Giacomo Matteotti, tra le prime vittime del regime. Non si è piegato, e l'hanno spezzato a 38 anni. Ha onorato la sua Chiesa, ha amato la sua gente, ha lasciato un ricordo vivo. A futura memoria! Tante cose è stato, una sempre: prete, “confratello” d'Italia…
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