Antonio Fascianelli è nato a metà degli anni '30, famiglia originaria di Amatrice (Rieti), ma ha vissuto sempre a Roma. Studi brillanti, laurea in teologia al Laterano e in pedagogia a Urbino. È prete dal 1959 ed è tornato al Padre nel 2004. Chi l'ha incontrato non può che ricordare la sua gioiosa e contagiosa allegria: diffondeva buonumore senza neppure pensarci, amatissimo da chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo. Parola vivacissima capace di sorprendere chi l'ascoltava, sia negli incontri quotidiani che nelle omelie domenicali. Anche poeta, ma sempre in dialetto romanesco - Belli, Pascarella, Trilussa maestri - e senza pretese, salvo quella di comunicare un attimo di sorriso, sempre realizzata. Ho tra le mani due suoi libri di poesie pubblicati negli anni '80, Che pazzienza che ce vò e Scherzi a parte, che ad ogni pagina sono sorpresa e buon umore. Prima però voglio ricordare una “trovata” di metà anni '50, tutta sua. Passando in talare con i suoi compagni di Seminario presso la stazione Termini trovarono un improvvisato comizio dell'allora Pci togliattiano, e arrivò loro qualche parola scortese: clima del dopo 18 aprile. Far finta di nulla e allontanarsi in fretta? Per Antonio no: si accostò al palco e con voce tonante - testuale, riferito poi dai compagni presenti - rispose: «Avete ragione! Il vero nostro problema è che si tratta della palingenetica obliterazione dell'io subcosciente che si infutura nell'archetipo prototipo dell'antropomorfismo universale!». Pare fosse una definizione della filosofia di un grande nome dei suoi studi, ma lo sconcerto fu immediato: nessuna replica e in pratica fine anticipata del comizio! Il racconto divenne leggenda nel buonumore. Poeta dunque, ed ecco alcuni versi esemplari. Titolo Pessimismo: «Quanno ce penso, quanto me dispiace/ Tutti quanti, lo so, vonno la pace:/ ma si pe'avella bisogna fa' la guera,/ quanno avremo la pace su 'sta Tera?». Pare scritta per oggi! C'è altro? Su tutto il suo amore per Roma: «O d'estate o d'inverno/ viè puro a Roma, ma te do' st'avviso:/ gòdete 'sta Città. Si vai all'inferno/ pòi dì' d'avè già visto er paradiso». Poeta della gioia contagiosa e amichevole… Sempre prete, però. Ecco 4 suoi versi dal titolo Fede: «Pe' vede er celo è inutile sforzasse/d'arzasse su la punta de' li piedi:/abbasta inginocchiasse. Così s'abbassa er celo e tu lo vedi». Senza orgoglio, però, e con serena coscienza dei propri limiti. Altro esempio, Maturità: «Si volevo parlà, da regazzino,/ me sentivo dì da tanta gente/ che me stava vicino:/ - Statte zitto, che nun capisci gnente!-/ Mò che so' granne e penso finarmente/ che l'esperienza me pò fa parlà/ me sento rinfaccià:/- Ormai sei granne: nun capisci gnente! -/ Ancora sto a aspettà/ quanno posso parlà…». Qualche malinconia anticipata e perenne. Con titolo L'Italia: «Dovete avé pazzienza/si questa conferenza/che vò trattà la criminalità/oggi nun se pò fa:/ma l'oratore nun s'è presentato/perché, pe' strada, l'hanno sequestrato». Ancora, Aggiornamenti: «a causa der progresso/oggi ogni cosa cambia con frequenza:/ l'amore, infatti, mo' se chiama sesso/ e la forza violenza». Solo malumore dominante? No! Nel complesso l'opposto. All'inizio del suo Scherzi a parte (Ed. Stet, 1984) ha voluto la celebre preghiera di San Tommaso Moro che chiede al Signore «La salute del corpo, con il buonumore necessario per mantenerla». Dono ricevuto in abbondanza, pur nella lucida coscienza del presente vissuto, e trasmesso a tutti coloro che l'hanno conosciuto ed amato. Un bel confratello!
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