giovedì 16 giugno 2016
Le prime impressioni mi lasciano diffidente. Mi succede spesso, giunto in un luogo per la prima volta, di domandarmi se sto davvero vedendo quello che credo di vedere. Noi abbiamo bisogno di tempo per raggiungere la riva su cui abita l'alterità, e non di rado ciò che la prossimità, sulle prime, ci permette è solo il riconoscimento di una distanza che esigerà, per essere coperta, più tempo di quanto non ne serva per colmare la distanza geografica. In questo senso, il soroche (mal d'altura) che il viaggiatore avverte quando sbarca a Bogotà, quel sintomo di nausea provocato dall'inusuale altitudine della città, è un effetto che ha a che vedere con la realtà. Tutti dicono che il rimedio sta nel tè di coca, che in effetti aiuta. Ma la vera terapia è vivere la città, aspettando che il malessere passi. È così che sono sceso a Candelaria, la zona storica di Bogotà, con le sue vie rumorosamente trasandate, eppure così festive, con i loro piccoli commerci, i barettini traboccanti di fritto, le gallerie goffe come certi sorrisi, le chiese che sembrano, sotto vari punti di vista, laboratori dello stupore (soprattutto Santa Clara e San Francisco), i trafficanti di smeraldi appostati nelle stesse piazze degli studenti, il passaggio dei taxi come farfalle ubriache, i caffè tipici (così indimenticabilmente romanesco il Café Pasaje) gomito a gomito con la vita minuscola e i suoi silenzi, silenzi pesanti, ma anche di una leggerezza che si direbbe insostenibile, poiché anche se l'orrore (della violenza, della povertà endemica, delle asimmetrie sociali) è lungi dall'essere sepolto, si arriva a credere che sì, un giorno cesserà, se ci lasciamo cullare da questa lingua spagnola che, sulla bocca dei bogotesi, diviene un idioma inaspettatamente soave. Quando si esce dal Museo del Oro e si procede dritto, nell'isolato tra la Carrera 8A e le Calles 15 e 16 si trova il quartiere dei libri usati (o "libri con esperienza", come da qualche parte ho sentito dire). In nessun'altra parte del mondo si trovano tanti bouquinistes assieme e così prodigiosi. Mi è già successo di innamorarmi di Hay-on-Wye, nel Galles, dove i libri si sono letteralmente impadroniti di quella pittoresca cittadina, e ho passato più di un sabato pomeriggio a spulciare i tesori di Strand, certamente uno dei luoghi più incredibili di New York. Ma le librerie Torre de Babel e Merlín sono un arcipelago unico su tutto il pianeta. Torre de Babel contiene più di 250 mila titoli in un edificio di quattro piani e sembra uscita dalla mente di Jorge Luis Borges: le sale che si succedono, già di per sé interminabili, si chiudono con una misteriosa parete-specchio, metafora del viaggio che il libro apre al lettore. Merlín investe nella creazione di atmosfere. La hall è stretta come la scaletta di una nave, e stretta è anche la scala che ci conduce al primo dei piani da dove l'avventura comincia. Poi, avremo solo libri e quadri; libri e sculture di ogni dimensione; libri e poltrone uscite da un fantasioso studio di design e con l'aura accresciuta dall'uso; libri e penombra; libri e finestre disegnate da una luce mai vista prima; libri e i colori incredibili dei reparti; libri e lettori che sono simili a creazioni del silenzio; libri, libri, libri. È là, nella libreria Merlín, all'incrocio della Carrera 8A con la Calle 15 di Bogotà, che ho ricopiato in un quaderno queste parole scritte da Cecilia Bajour: «Leggere sarà forse come ascoltare? E se così fosse, dov'è che la lettura s'incrocia con la parola orale, con quella appena pronunciata, incarnata in una voce, che sia nostra o altrui? E ancora: dov'è che la lettura e la parola taciuta si toccano, questa parola che è detta unicamente dagli occhi, dai gesti e dal corpo?».
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