
Il poeta inglese Auden intitola con una data una poesia composta non appena emigrato negli Stati Uniti. La data è quella del primo settembre 1939, giorno in cui la Germania invase la Polonia. Versi vibranti: «Siedo in una delle bettole della Cinquantaduesima strada, incerto e spaventato, vedendo scadere le astute speranze di un decennio basso e disonesto». Più oltre nella poesia, altre parole risuonano, ancora oggi, anche oggi. «Nessuno esiste mai da solo»; «dobbiamo amarci l’un l’altro o morire»; «indifeso sotto la notte/il nostro mondo giace inebetito». Nel comporre la poesia, Auden si trovava – e si sentiva – in esilio. Lo si immagina in quella bettola di Manhattan, e intanto si pensa a come l’essere esuli possa rendere più lucidi. Per come tutto è essenziale, per come l’avere fatto una scelta radicale per la propria vita (così è il partire, il ricominciare lontano), sa mettere di fronte a quel che della stessa vita meno è superfluo, meno è innecessario. Ancora disorientato nella nuova realtà americana (newyorkese), Auden guardava il mondo rutilante della città sconosciuta e lasciava cantare il suo cuore stretto nell’angoscia. La svolta del recente esilio trovava la strada della sua voce. La sua inconfondibile voce di grande poeta.
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