Papa Francesco sull'aereo che lo porterà a Giacarta poco prima del decollo da Fiumicino - Antonio Spadaro
Sono le 17.32 di lunedì 2 settembre quando l’aereo di Ita Airways con a bordo papa Francesco decolla da Fiumicino alla volta di Giacarta, in Indonesia, prima tappa del viaggio più lungo del Pontificato. Due gesti hanno preceduto la partenza del Papa: domenica la preghiera davanti alla Madonna Salus Populi Romani nella Basilca di Santa Maria Maggiore e ieri pomeriggio l’incontro con un gruppo di senza dimora in Casa Santa Marta. Martedì mattina è previsto l’arrivo nella capitale indonesiana, mentre i primi incontri in programma si terranno domani: la visita alle autorità, l’incontro con i gesuiti, il momento con il clero e i religiosi e, infine, l’incontro con i giovani.
Il tunnel che collega la cattedrale e la moschea Istiqlal? L’allestimento non è ancora del tutto completato, ma il Papa giovedì mattina lo percorrerà insieme al cardinale Suhario per recarsi dal Grand imam Nasaruddin Umar. E sarà un segno importante dell’amicizia tra cristiani e musulmani in questo Paese». Dalla Driyarkara School of Philosophy di Giacarta – di cui dall’inizio degli anni Settanta è l’anima – il gesuita padre Franz Magnis–Suseno ha visto passare tante stagioni dell’Indonesia. Originario della Baviera, dov’è nato nel 1936, intellettuale notissimo anche fuori dalla cerchia cristiana a Giacarta per le sue riflessioni sull’etica pubblica e l’impegno nel dialogo tra cristiani e musulmani, dal 1977 – divenendo cittadino indonesiano – ha scelto di affiancare al suo cognome originario – von Magnis – il nome Suseno, che nella locale lingua bahasa evoca il concetto di forza e resilienza. Un modo per fare ancora più propri i tratti più belli di questa terra, dove arrivò per la prima volta nel 1961.
«Aspettiamo papa Francesco come un’iniezione di forza e di fiducia – racconta il gesuita oggi ottantottenne –. Nei suoi discorsi penso che sottolineerà soprattutto due dimensioni: il tema dell’amicizia tra le religioni e l’attenzione per l’ambiente, che qui è un tema fondamentale. Certamente per i cattolici è un grande aiuto sapere che siamo nel cuore del Papa. Ma in questi giorni ho avuto modo di vedere quanto sia atteso anche da molti gruppi musulmani. La Nadhlatul Ulama, la più importante organizzazione islamica locale e i giovani della Muhammadiyah sono tutti entusiasti per il suo arrivo».
Il “tunnel dell’amicizia” – lungo poche decine di metri, sotto la centrale piazza Merdeka nel più popoloso Paese a maggioranza musulmana al mondo – l’hanno voluto proprio la Nadhlatul Ulama e l’attuale presidente indonesiano Joko Widodo per collegare la cattedrale di Santa Maria Assunta con la moschea Istiqlal (la più grande del Sud–est asiatico). Un simbolo di oggi ma che ha radici profonde, nella comune «fede nell’unico Dio» e nell’impegno concreto per l’unità nella diversità che caratterizzano la dottrina nazionale della Pancasila (“i cinque principi”) che Sukarno, il padre fondatore dell’Indonesia indipendente, volle come base della coesistenza in questo grande Paese dove convivono più di 400 gruppi etnici. Negli anni Quaranta Sukarno la elaborò proprio a Flores, l’isola che è il cuore della vivace comunità cattolica locale, dove gli olandesi – la potenza coloniale che controllava da quasi due secoli questo grande arcipelago – lo avevano mandato al confino.
Il Papa saluta il personale dell'aeroporto poco prima della partenza per Giacarta - Vatican Media
«Grazie alla dottrina della Pancasila fin dagli inizi la grande maggioranza dei musulmani non insistette per fare diventare l’Indonesia uno Stato islamico – spiega padre Magnis–Suseno –. Questo ha garantito anche un costante miglioramento nelle relazioni tra i cristiani, che tra cattolici ed evangelici sono complessivamente circa il 9 per cento della popolazione, mentre i musulmani sono oltre il 70 per cento. Va fatta comunque qualche distinzione: anche in Indonesia esiste il radicalismo islamico, che in forme e gradazioni diverse coinvolge circa il 20% della comunità musulmana. Però il main stream, il gruppo maggioritario, ha questo atteggiamento positivo, ha fiducia nelle relazioni. E gli stessi estremisti – più che a noi non–musulmani – guardano a realtà come la Nadhlatul Ulama o la Muhammadiyah come ai propri nemici da ‘convertire’».
Francesco arriva in un Paese che sta vivendo anche una transizione delicata: ad accoglierlo domani mattina – nel primo appuntamento ufficiale della visita – troverà il presidente uscente Joko Widodo. Ma c’è già un nuovo presidente eletto che entrerà in carica a ottobre, l’ex generale Prabowo Subianto, genero dell’ex dittatore Suharto, che governò con un regime autoritario a Giacarta dal 1967 al 1998. Prabowo – figura discussa per le violazioni dei diritti umani compiute dall’esercito indonesiano negli anni Novanta proprio a Timor Est, altro Paese che il pontefice toccherà in questo viaggio – era il rivale storico di Widodo. Poi, però, si sono alleati, grazie a un posto da vicepresidente per Gibran, il figlio del capo dello Stato uscente. Un trasformismo che ha portato molti negli ultimi mesi a sollevare preoccupazioni sulla tenuta della democrazia indonesiana. Nelle scorse settimane, inoltre, ci sono state nuove massicce dimostrazioni nelle piazze di Giacarta e delle principali città indonesiane in difesa di una sentenza delle Corte costituzionale che ha fermato un tentativo parlamentare da parte della “grande alleanza” di bloccare candidature sgradite per le cariche di governatori nelle elezioni provinciali che si terranno a novembre.
Quando Giovanni Paolo II compì il suo viaggio in Indonesia nel 1989, al potere a Giacarta c’era ancora Suharto. «Oggi politicamente la situazione è completamente diversa – ci risponde padre Magnis–Suseno –. Nel mezzo c’è stata quella che qui chiamiamo la Reformasi che portò nel 1998 alla fine di quella stagione. Oggi i diritti umani e il metodo democratico sono affermati nella Costituzione. Sì, oggi stiamo vivendo nuovamente una situazione problematica, le istituzioni indonesiane stanno mostrando segni di debolezza. Ma per problematiche completamente diverse: il pericolo di oggi si chiama oligarchia. I partiti politici non rappresentano la gente, i governanti rischiano di essere al servizio solo di interessi finanziari».
Tutto questo, però, continua l’anziano gesuita, in questi giorni probabilmente rimarrà giustamente sullo sfondo. «Non sono problemi legati alla religione – commenta –. E sul futuro io resto ottimista. Quando Suharto salì al potere, alcuni cristiani, soprattutto cattolici, capirono che in quel momento era bene scommettere sui musulmani, che occorreva far crescere la fiducia nelle relazioni. E lo stesso hanno fatto anche tante personalità e amici della comunità islamica, come per esempio Abdurrahman Wahid, che tramontata l’era di Suharto divenne il quarto presidente del Paese. Insieme siamo riusciti a creare pace e progresso, apertura alla democrazia. L’importante oggi, anche per noi cristiani, è continuare ad aprirci: non chiuderci nei nostri circoli».