Caro direttore,
la storia di Cristina Scuccia è un po’ la storia di tutti. Di un’umanità in cammino, che qualche volta si ferma credendo di aver trovato il suo posto nel mondo. Ma che può inciampare, ripensarsi e decidere di cambiare. Cristina si racconta lo scorso sabato all’interno di un programma tv. Lo fa con la grazia e l’ingenuità che hanno contraddistinto anche la sua vita precedente, quella di Orsolina della sacra famiglia. Oggi non è più suora. E infatti è truccata, curata nel corpo e nell’abbigliamento. Ma era bellissima anche prima, illuminata dallo sguardo di Dio e dal suo essere sposa di Cristo. E ha sempre il suo talento, anche se, a detta di molti, le manca l’X Factor, il quid che permette a un artista di emergere. Eppure, nel 2014 da partecipante a “The Voice”, un talent show canoro, seppe vincere, sbaragliando le altre voci e tatuaggi, piercing, look eccessivi e segni di ribellione. La vera trasgressione era la sua consacrazione, così forte da far commuovere J-Ax, che l’accompagnerà come coach fino alla vittoria.
Da lì inizia una parabola artistica importante. Suor Cristina si adegua alle regole dello star system che – ribadisce ogni volta che la intervistano – non sono inconciliabili con la vita consacrata, ma possono servire «per raggiungere le periferie del mondo e portare la gioia del Vangelo». Lo scriveva lei stessa il 1° settembre 2019 su “Milano Sette”, inserto domenicale ambrosiano di “Avvenire”, qualche giorno prima dei voti perpetui. Tre anni dopo ritorna in tv e annuncia che la decisione di «svestire l’abito» è parte di un percorso di crescita che non l’ha allontanata dalla fede, anzi l’ha rafforzata. E non dimentica di ringraziare la sua Congregazione che, se da un lato l’ha sostenuta, dall’altro l’ha «troppo protetta», impedendole di «evolversi come donna e religiosa».
In questo passaggio, però, nasce il rischio di trasformare una comune storia di cambiamento (da non giudicare), in un pretesto per distorcere l’autenticità di un carisma religioso, che non è un percorso funzionale ai propri bisogni, ma un modello di crescita nella disponibilità ad agire in nome dello Spirito. E pertanto presuppone un equilibrio a livello umano, il rispetto di regole e anche delle rinunce. Vale per chiunque decide di propendere per scelte dotate di (relativa) stabilità o finitezza, come il matrimonio o la vita religiosa. Si tratta di percorsi che contrastano apparentemente i criteri di una contemporaneità costruita sulla fluidità delle relazioni, sulla complessità e l’autodeterminazione. E per questo necessitano di «accompagnamento e discernimento» come spiegava papa Francesco un anno fa ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica. Che non vuol dire impostare una formazione a compartimenti stagni. Nessuno può indicarci come fare la suora (o il marito, la moglie, il genitore), ma possiamo essere aiutati a crescere in umanità e a capire che ciascuno è persona capace di generare bellezza e verità al di là delle situazioni particolari. Forse a suor Cristina questa guida è mancata. Oppure è stata lei a rifiutarla. Non lo sappiamo ed è poco importante. Ciò che conta è che in questo suo “secondo tempo”, possa riequilibrare l’amore per Gesù e quello per la musica, senza forzature e ambiguità.
Sociologo, Pontificia Università Lateranense