Nel dibattito profondo e appassionato circa la legge contro l’omo-transfobia per chi cerca di pensare e far pensare si pongono delle questioni fondamentali, che superano il livello politico- partitico e giuridico-legislativo. E il teologo non le può accantonare assistendo dalla finestra al susseguirsi degli eventi. Tanto più che egli è, e non può non essere, cittadino consapevole della propria appartenenza alla città di Dio e a quella degli uomini, senza confusione, ma anche senza separazione, come recita il Concilio di Calcedonia. Una recente intervista a Stefano Fassina, intellettuale e parlamentare di sinistra, ha messo in luce un nodo teorico decisivo: «La questione fondamentale è che l’articolo 1 [dell’attuale disegno di legge] contiene una visione antropologica. E una visione antropologica non può essere legge dello Stato. Il rafforzamento necessario e urgente della normativa antidiscriminatoria non può essere legato, mi ripeto ancora per essere più chiaro possibile, a una visione antropologica» (Avvenire 7 luglio 2021).
Che cosa è in gioco, se non l’umano, che si caratterizza per il passaggio (in questa terra) di un 'io' in una corporeità, fisica e determinata, il cui realismo non può essere facilmente eluso a favore di un soggettivismo indiscriminato? Viene dunque alla ribalta la discussione sulla 'persona', sui suoi inalienabili diritti e doveri, ma anche sulla visione che la società e lo Stato sono chiamati a esprimere di questa singolarità inviolabile, di cui la legge dovrebbe garantire in primo luogo la sussistenza, condannando ogni forma di violenza nei suoi confronti.
Tuttavia, all’argomentazione del deputato, si potrebbe obiettare il fatto che in ogni caso una legge ha alle sue spalle una visione antropologica, persino le leggi più curvate sull’economico. E di questo abbiamo tutti, da intellettuali e da credenti, il dovere di continuare a discutere. Questa sottolineatura mi conduce al nocciolo della riflessione. Proprio perché dell’umano si tratta, e dell’uomo in quanto persona, ogni volta che ci si accinge a formare una legge, come cittadino non della città celeste, ma di questa stupenda nazione che è l’Italia, mi sento garantito dalla Costituzione repubblicana, che agli articoli 55 e 70 afferma il bicameralismo e l’«esercizio collettivo» (art. 70) del potere legislativo.
E questo perché rispettosa della complessità delle questioni e dei risvolti antropologici che esse mettono in campo di volta in volta. Problematiche che hanno bisogno di tempo di riflessione, di dialogo e di dibattito. La sapienza dei padri della Repubblica tende a mettere in guardia dalla fretta e dal prendere decisioni istantanee (tutto e subito!), quando invece si richiede tempo e matura riflessione. Nella fattispecie, come direbbero i giuristi, alla cui categoria non appartengo affatto, ma che mi interpella come cittadino, blindare un testo legislativo nel passaggio da una camera all’altra non è per nulla rispettoso della Costituzione. Se ciò può accadere (per esempio, nel caso della fiducia posta dall’esecutivo), non è questo il caso, in quanto il premier ha detto che la questione è del Parlamento (ossia delle due Camere), non del Governo in carica e neppure della sola Camera che l’ha già votata. Tirare la giacca al Senato o blindare il testo con il diktat: 'o prendere o lasciare!', significa non aver compreso né la posta in gioco, né l’ordinamento della nostra Repubblica. Cerchiamo pertanto di essere democratici nella vita e non solo nell’etichetta partitica.