Il lungo e impegnativo viaggio di Benedetto XVI, pellegrino di pace in Terra Santa, non poteva che concludersi davanti al Santo Sepolcro con un’umile e 'scandalosa' professione di fede: « come cristiani sappiamo che la pace alla quale anela questa terra lacerata da conflitti ha un nome: Gesù Cristo » . Sta qui la chiave interpretativa di una visita che qualche commentatore israeliano ha incredibilmente definito « troppo politica e poco religiosa » , giudizio davvero paradossale se si pensa che alla vigilia di questo viaggio molti temevano esattamente il contrario dal Papa-teologo. Forse val la pena ricordare che Benedetto XVI è venuto in Terra Santa per un profondo desiderio del cuore ma anche su invito delle autorità d’Israele, di Giordania e dell’Autorità nazionale palestinese. E che in questa tormentata regione non c’è affermazione, soprattutto se pronunciata da un’altissima autorità morale, che non acquisti immediatamente una valenza politica. Il Papa ha parlato in modo molto chiaro ed esplicito richiamando il diritto dei palestinesi ad avere una patria sovrana e al tempo stesso il diritto degli israeliani a vivere dentro confini sicuri, ma è andato oltre la politica facendo appello alla generosità e al perdono. Ha denunciato con forza la tragedia del muro, ammonendo però che «prima di tutto è necessario rimuovere i muri che costruiamo attorno ai nostri cuori». Insomma, ha invitato tutti ad alzare lo sguardo senza più ripiegarsi nelle recriminazioni, nell’odio e nella vendetta. È sconfortante dover notare che tanti osservatori, pronti a passare al severo setaccio dell’ideologia ogni parola pronunciata da Benedetto XVI, abbiano smarrito il filo conduttore di un discorso, logico, chiaro e appassionato che si è dipanato lungo tutti questi otto giorni. C’è chi è arrivato a criticare Papa Ratzinger per aver omesso nel suo intervento a Yad Vashem il numero di sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti, senza accorgersi che ne aveva parlato lo stesso giorno, appena messo piede sul territorio israeliano. Benedetto XVI ha condannato con parole forti l’antisemitismo, ha riflettuto con finezza teologica sul significato biblico del nome che non può mai essere cancellato, ha commosso i sopravvissuti che hanno ascoltato le sue parole. Ma sembra che qualunque cosa dica o faccia il Papa di Roma, per qualcuno non sia mai abbastanza. Benedetto XVI nel corso del suo pellegrinaggio è entrato in due moschee, ad Amman ed a Gerusalemme, ha rafforzato i legami di rispetto reciproco e d’amicizia con l’islam ed ha ribadito il valore teologico del «vincolo inscindibile tra cristianesimo ed ebraismo», inaugurando una sorta di «dialogo trilaterale» fra le religioni monoteiste dove gioca un ruolo decisivo il richiamo alla ragione «che si eleva al piano più alto quando viene illuminata dalla luce della verità dell’unico Dio», come si è espresso nell’incontro con i leader musulmani nella moschea 'Re Hussein'. Ed ha saputo infondere coraggio e speranza ai cristiani, toccando i loro cuori ed invitandoli a restare in Terra Santa per testimoniare la potenza rivoluzionaria del Vangelo e dare un contributo decisivo al processo di pace. Cambierà qualcosa dopo questa visita? «La memoria può essere purificata, un futuro di pace può sorgere», è il messaggio con cui Benedetto XVI si è congedato da Israele. Perché «la storia non necessariamente si ripete, Dio può far nuove tutte le cose» . Nonostante i critici e gli scettici.