L’uomo pensoso, l’uomo insomma che non rinuncia a sentire e a pensare fortemente, avverte che c’è qualcosa di vero in questa strana vertigine di solitudine che può perdere l’innamorato respinto come il santo, il fuggiasco come il mistico, lo scopritore come il soldato o il lavoratore piegati sulle loro trincee. Chi non conosca il sapore di questa irriducibile solitudine, di tale infinito senso di abbandono da tutto e tutti, non conoscerà mai lo spazio, la profondità segreta in cui può nascere, come un germoglio su un muro antico e screpolato, lo strano fiore azzurro di pronunciare "tu" a qualcuno, a qualcosa che non va via nemmeno nella nostra più stremata solitudine.
Uomini geniali di ogni epoca e di ogni latitudine, in ogni fede e in ogni cultura, hanno testimoniato la potenza di questa esperienza che magari nella nostra vita fa capolino mentre passeggiamo in un supermercato stranamente deserto o in una viuzza smangiata dal sole o illuminata solo dalla luna. O in un vuoto bar sulla riva. È la potenza di una esperienza che fa scoprire la irriducibilità della nostra persona, del nostro io. Abbiamo in noi qualcosa che non coincide con le cose che facciamo, con le miriadi di relazioni che abbiamo, con le tante cose che ci attirano o feriscono. C’è qualcosa in noi, di noi, che chiede di essere considerato in se stesso, e non per come siamo vestiti o quanti soldi abbiamo nella tasca dietro dei pantaloni o in una borsetta o da qualche pare in banca. Una nuda singolarità. Il mistero di me.
La solitudine a volte ci fa rabbrividire perché è una condizione in cui, troppo raramente, si tocca tale mistero. Addirittura per la attuale mentalità – incline a evitare tremori profondi e ha rimpianto, semmai, di brividi passeggeri che ci fan somigliare sempre più a figure imprecise, come quelle che si vedono in una televisione che non funziona bene – si tende a cercare di evitare questo scandaloso accorgersi di se stessi... La potentissima macchina della distrazione è lì disponibile, no? Eppure l’estate torna puntuale a darci l’occasione per farci fare – in tanti modi, spesso durissimi, a volte dolcissimi – l’esperienza della solitudine. Che è una esperienza preziosa. Senza la quale si è meno uomini.
Nessuna solitudine di quelle che proviamo è in se stessa buona o cattiva. Dipende se in essa, se al suo fondo, in una screpolatura di quel che parrebbe un muro chiuso e tremendo, qualcuno, misteriosamente, come un vento che passa libero e strano, getta un seme, un incontro, un segno, che fiorisce nel miracolo di un "tu" che non lascia mai soli.