Pochi lo sanno, pochi ci credono, ma anche i giornalisti hanno il loro tribunale. Un tribunale morale, ma con un potere vero. Se qualcuno di noi scrive «falsamente» e mette in circolo «informazioni non vere» e perciò «viola la dignità e l’onore» di una persona «compromettendo il rapporto di fiducia tra stampa e lettori» e tutto questo viene provato, per lui scattano sanzioni. E la sua colpa viene proclamata al cospetto dell’opinione pubblica.È accaduto ieri a Vittorio Feltri, condannato in primo grado dall’Ordine dei giornalisti di Milano. I lettori di Avvenire ne conoscono benissimo il motivo: perché dal 28 agosto 2009 per dieci giorni di fila scrisse con ferocia e malizia falsità contro Dino Boffo, per quindici anni generoso e limpido direttore di questo giornale, arrivando ad attaccare la stessa Chiesa. Poi – tre mesi dopo – Feltri fece ammenda, a fatica. E dopo qualche altra settimana tornò a farsi sentire, industriandosi ad alzare polveroni per coprire le proprie colpe. Se ora, per lui, c’è "solo" una pesante sospensione e non una definitiva radiazione dalla professione giornalistica, non è per le cortine fumogene, ma perché, in qualche modo, a dicembre, provò in parte a rimediare al malfatto.Ieri però sulla bocca di Feltri sono tornate sconcezze e oscene allusioni, anche contro la Chiesa. E questo è di una gravità intollerabile. Eppure Feltri dovrebbe averlo capito: il tempo è un giudice morale inesorabile, esalta i galantuomini ed è inflessibile con gli spacciatori di fango e di menzogne.Peccato per gli uomini politici e di governo che ieri sono stati così avventati da tenere bordone al direttore del Giornale, finendo per difendere la sua pretesa di impunità e dimenticando che, in questa storia, l’unica vittima è stato Boffo. L’Ordine dei giornalisti milanesi avrebbe forse potuto evitare di sentenziare su un caso così emblematico alla vigilia di una consultazione elettorale, ma certo nessuno può dire che questo giudizio sia arrivato troppo presto. E nessuno, soprattutto, dovrebbe essere così fazioso e cieco da non inchinarsi di fronte alla verità.