Migranti accolti sulle coste spagnole dai volontari della Croce rossa - Reuters
Sono 15 i Paesi Ue - tra cui l'Italia - che vanno all'assalto della Commissione Europea chiedendo «nuove misure» per arginare gli arrivi, anche con soluzioni «fuori dagli schemi». Nella lettera, inviata ieri a Bruxelles, si indicano espressamente le intese con la Turchia, la Tunisia e l'accordo Italia-Albania come casi virtuosi e si arriva ad evocare una sorta di modello Ruanda per i rimpatri. L'esecutivo Ue ha confermato di aver ricevuto il documento ma ha precisato che avrà «bisogno di tempo» per studiare il testo, che è «complesso» e ricco di spunti.
Dopo aver celebrato il nuovo Patto sulle Migrazioni dell’Ue, un mese fa, come una svolta storica e un accordo capace di bilanciare accoglienza e presidio dei confini, un nutrito gruppo di governi dell’Unione si dev’essere ricreduto. Non sono più tanto sicuri che le molte pagine relative ai rimpatri (citati più di 90 volte nel testo) raggiungano l’effetto sperato. Così hanno sentito il bisogno di mettere nero su bianco delle richieste supplementari. Dal punto di vista politico, colpisce l’allargamento della squadra dei sovranisti senza remore: oltre ai soliti governi dell’Est Europa, all’Austria e alla Grecia, che da qualche tempo seguono l’ex gruppo di Visegrad, troviamo due piccoli Stati insulari del Mediterraneo (Cipro e Malta), i Paesi Bassi, sempre meno accoglienti, e due Paesi scandinavi che hanno abbandonato la loro tradizione d’impegno umanitario: da tempo la Danimarca, più recentemente la Finlandia, dopo che le ultime elezioni hanno visto un’affermazione nazional-populista. L’Italia è dunque in buona compagnia, ma disallineata rispetto ai maggiori partner continentali.
L’imminenza delle elezioni europee getta altra benzina sul fuoco dello sfruttamento delle questioni non facili delle politiche migratorie, ai fini della raccolta di consenso sulla linea della chiusura. Nel complesso, si sta disegnando un’Unione Europea orientata alla riduzione dell’accoglienza dei profughi, ma divisa tra chi mantiene un certo attaccamento ai valori umanitari e chi ha elevato la difesa dei confini a principio inderogabile. In questa prospettiva, i rimpatri sono diventati una sorta di ossessione per parecchi governi. Si rendono conto che le loro promesse di contrasto all’immigrazione indesiderata s’infrangono contro la bassa capacità di allontanare i migranti colpiti da ordini di espulsione: in Italia, appena 4.304 nel 2022. Ciò che i governi non dicono è che sono parecchi i fattori in gioco: la difficoltà d’identificare con precisione gli interessati e il loro Paese di origine, la scarsa o nulla collaborazione di molti di questi Paesi, le situazioni di pericolo, di negazione di diritti fondamentali, di miseria a cui andrebbero incontro, nonché gli alti costi di trattenimento e deportazione. Espellere delle persone, tanto più verso luoghi lontani come la Cina o l’America Latina, con relativa scorta di polizia, costa migliaia di euro, sottratti ad altri impieghi forse più importanti per i cittadini.
Ecco allora il tentativo di rispondere al problema con pseudo-soluzioni come queste: scaricare su Paesi terzi i migranti che si vorrebbero deportare, quando non si è in grado di rimpatriarli. Chi abbia un minimo di sensibilità verso i diritti umani dovrebbe domandarsi che senso ha spedire una persona in un Paese con cui non ha nessun rapporto, di cui non conosce la lingua, in cui non saprebbe come procurarsi da vivere. Forse, come nel caso dell’accordo britannico con il Ruanda o di quello italiano con l’Albania, la tenue aspettativa è quella di esercitare un effetto di deterrenza sui partenti. Più probabilmente, di far credere all’opinione pubblica di avere a portata di mano la soluzione del problema esibendo determinazione.
È lecito però domandarsi se si possono individuare delle alternative a questa linea pseudo-rigorista. Senza pretendere di vendere soluzioni semplici a problemi complessi, si può richiamare l’esigenza di manodopera e quindi l’opportunità pragmatica di trasferire i richiedenti asilo in possesso delle competenze necessarie nel canale dell’immigrazione per lavoro. Si possono immaginare forme di sponsorizzazione da parte di soggetti che sul territorio intendano farsi carico dell’accoglienza, sostenendone i costi. Esiste poi lo strumento dei ritorni volontari assistiti, oggi sotto-finanziati e sotto-utilizzati. Ciò che non serve sono ripetuti proclami che esibiscono una severità in ultima analisi inefficace.