Sciama lenta e quasi festosa, su è giù per place du Luxembourg, la folla di funzionari e visitatori diretti alla sede dell’Europarlamento di Bruxelles. Una atmosfera da ultimi giorni di scuola: l’ultima seduta dell’Europarlamento nella sede di Strasburgo si è svolta dal 14 al 17 aprile, mentre a Bruxelles, chiusa la plenaria di inizio aprile, gli eurodeputati hanno già salutato, molti con uno speranzoso «arrivederci».
Un rompete le righe, in attesa della prima proiezione ufficiale che la notte di domenica 25 maggio, delineerà già con buona precisione la composizione della nuova assemblea. Attesa e apprensione, come ovvio all’inizio di una campagna elettorale, ma questa volta con un surplus di incertezza perché – come recita lo slogan per una volta azzeccato di queste elezioni continentali, le ottave dal 1979 – «questa volta è differente». Un voto che sicuramente non sarà un semplice “giro di valzer” continentale: quello che si potrebbe prefigurare, a fronte delle impetuose folate di nazionalismo euroscettico giunte dalla Francia di Marine Le Pen e dall’Ungheria di Viktro Orban, è una sorta di referendum fra i Ventotto Stati sul futuro dell’Europa. Non certo un referendum costituzionale come quelli che nella primavera del 2005 in Francia e nei Paesi Bassi mandarono all’aria il progetto di una costituzione europea, poi ricomposto in forma ridotta nel trattato di Lisbona, ma le scelte politiche di 390 milioni di elettori determineranno se per rilanciare la crescita, ci sarà un brusco arresto del processo di integrazione o, per contro, un suo rilancio verso un nuovo progetto più coeso.
Il presidente dei Ventotto
Quello che pare sfuggire ancora al dibattito pre-elettorale, concentrato sulla chiusura delle liste e sulle politiche nazionali, è una novità capace di dare più forti motivazioni al voto di maggio. Utile – anche solo per scegliere se e come andare alle urne – ricordare quello che sarà il percorso di insediamento delle istituzioni europee, che per giunta avverrà durante il semestre di presidenza italiana. Per la prima volta, insediatosi il nuovo Parlamento a luglio, il presidente della Commissione europea sarà nominato dagli Stati membri «tenendo conto dei risultati delle elezioni europee». Questo significa che il candidato designato dai capi di Stato e di governo dei Ventotto, dovrà presentare ai 751 eurodeputati neo-eletti (fra cui i 73 italiani) il suo programma politico che dovrà ottenere il consenso della maggioranza assoluta dei deputati (vale a dire 376 su 751). Solo dopo questo voto schiettamente politico-parlamentare il presidente della Commissione potrà insediarsi, e si potrà procedere alla nomina dei Commissari, per questa volta ancora uno per Stato membro. Una bocciatura davanti all’emiciclo di Strasburgo costringerà gli Stati membri a presentare un nuovo candidato.
Questo significa che per la prima volta i cittadini europei possono scegliere indirettamente il presidente della Commissione, vale a dire chi guiderà l’“esecutivo” dell’Ue in base alla maggioranza parlamentare mentre in precedenza la nomina rifletteva gli equilibri all’interno del Consiglio dei capi di Stato e di governo. E per la prima volta i principali gruppi politici europei hanno indicato il loro candidato alla guida della Commissione: Jean-Claude Juncker, ex primo ministro del Lussemburgo ed ex presidente dell’Eurogruppo, per il Partito popolare europeo (Ppe); Martin Schulz, attuale presidente del parlamento europeo, per i Socialisti e democratici (S&D); Guy Verhofstad, ex primo ministro del Belgio, per i liberali e democratici (Alde); la Sinistra Europea ha indicato come candidato Alexis Tsipras. Un dato che determinerà una campagna elettorale più personalizzata, con programmi politici più precisi e controllabili dall’elettorato. Un passo significativo verso una reale cittadinanza europea: considerato poi che in base al Trattato di Lisbona il Parlamento europeo ha già competenza sul 70% delle legislazioni che vengono poi approvate a livello nazionale, si può anche dire che per i cittadini italiani quello di maggio a Bruxelles è il secondo tempo di una partita politica iniziata con le elezioni politiche del febbraio 2013.
Euroscettici: un’ondata di senza voce?
Un voto «differente», perché recepisce le novità istituzionale del Trattato di Lisbona, ma anche per la recessione iniziata nel 2008 con la crisi del debito sovrano e che ha evidenziato un drammatico calo di fiducia nel progetto europeista. La «disintegrazione dell’Europa è un caso serio», afferma Jacques Rupnik, politologo di origine ceca che insegna a Sciences Po a Parigi. In altri termini la «gestione della rabbia» unita alla «stanchezza delle democrazie nazionali» potrebbe disegnare una nuova geografia mentale dell’Europa. Su questa «politica della sfida» prospera l’ondata populista, mentre la maggioranza europeista in cui si riconoscono, con contenuti diversi, popolari, socialisti e liberali, ritiene che la soluzione politica ed economica sia da cercare in una integrazione ancora più forte. Quale siano gli obiettivi e i programmi di questo “scatto in avanti”, a dieci anni dall’allargamento ad Est dell’Unione, è il vero contenuto da pretendere dalle classi dirigenti dei Ventotto: una agenda europea per rilanciare la crescita oltre l’austerity, ma anche indicare un progetto di stato sociale sostenibile e di sicurezza energetica fino ad affrontare i nodi di una politica estera e di difesa comuni.
Dall’altro il populismo che sbandiera un ritorno poco realistico alle monete nazionali come antidoto alla recessione trova in Marine Le Pen il suo leader. Il fronte al di fuori dei partiti europeisti, è dato negli ultimi sondaggi al 30% ma che, scremato dalla Sinistra europea e dalle formazioni di estrema destra, si attesta al 20-22 %: sono il Front national francese, gli indipendentisti fiamminghi di Vlaaps Belong, i separatisti scozzesi, gli austriaci del Fpö e la Lega Nord che ha appena annunciato pochi giorni fa un’alleanza con la Le Pen ma in Italia è antagonista a Fratelli d’Italia, partito anch’esso anti-euro. Una grossa incognita, rispetto al futuro collocamento in Europa, sono poi i grillini in forte crescita in Italia. Il fatto è che per formare un gruppo politico, e quindi avere diritto di voto e azione all’interno del Parlamento europeo, occorrono almeno 25 deputati di 7 Paesi diversi. E per funzionare, al di là della tecnica parlamentare, un gruppo deve avere una coesione ideale difficile da improvvisare in formazioni eterogenee e spesso in polemica fra loro. Per questo Hannes Swodoba il capogruppo dei socialisti e democratici europei annotava, un po’ ironico, in un recente dibattito televisivo: «Marine Le Pen è molto attiva in Europa, non nell’Europarlamento dove è assenteista».
Poco realistico pensare che le rumorose grida anti-Bruxelles abbiano la forza di bloccare i palazzi dell’Unione europea ma il drappello di un centinaio di deputati euroscettici potrebbe mettere altra sabbia nei già farraginosi ingranaggi dell’Ue e creare un Parlamento – con Ppe e socialisti dati entrambi attorno al 28% – con maggioranze variabili. Una debolezza politica che potrebbe essere la premessa a una “grosse koalition” europeista. Insomma: se nuovi anti-europeisti (bene o male) crescono, una nuova classe dirigente europeista cercasi. Per far ripartire il mito dell’Europa – sinonimo di pace e sviluppo economico come mai prima del XXI secolo – dopo Barroso e Van Rompuy, traghettatori del Trattato di Lisbona, servono pure veri statisti europei.