Caro direttore,
lungi da me la presunzione di mettere lingua nel coacervo di problemi sollevati dai due libri di cui tanto si parla di Nuzzi e Fittipaldi, ora che il promotore di giustizia vaticano li ha rinviati a giudizio. Problemi relativi alle finanze vaticane, al patrimonio immobiliare degli enti in vario modo riconducibili alla Santa Sede, alla riforma della Curia romana, allo stato dell’arte dell’azione avviata da papa Francesco per assicurare trasparenza e sobrietà nel rapporto con i beni materiali da parte di uomini e istituzioni della Chiesa. Basti osservare che, quale che sia il giudizio su tali inchieste giornalistiche, al fondo, il problema è quello del rapporto tra mezzi e fine nella missione della Chiesa, e di vigilare affinché quel rapporto non si inverta. Un’impresa non facile e da non dismettere mai se si considera che la Chiesa è istituzione anche umana.
Vorrei piuttosto spendere una parola su un “dogma laico” secondo il quale i giornalisti avrebbero un solo e assoluto dovere: quello di pubblicare i documenti di cui entrano in possesso. Naturalmente dopo avere accertato la veridicità di essi. Spero non sia vietato muovere obiezioni sul punto. Primo: davvero il giornalista può/deve procedere alla pubblicazione di notizie quand’anche consapevole che esse siano state illecitamente trafugate? Non so se sia reato di ricettazione. Di sicuro, a mio avviso, è comportamento censurabile, sotto il profilo dell’etica professionale. Secondo: davvero il giornalista è tenuto a pubblicare sempre, nell’assoluta indifferenza per le implicazioni e gli effetti della notizia? Domando, per esempio, perché giustamente si censurano immagini truci e cruente come le decapitazioni, se non perché ci si preoccupa responsabilmente dei loro effetti? Sia nel turbare e ferire la sensibilità dei telespettatori, sia nel dare così una mano ai terroristi. Eppure anche in questo caso la notizia sotto forma di immagine ci sarebbe tutta. Può l’operatore dell’informazione non contestualizzare le notizie, non domandarsi se esse complessivamente accreditino una visione almeno unilaterale della realtà di cui riferiscono, in questo caso la vita della Chiesa? Terzo: i suddetti giornalisti, anche per giustificare il ricorso a fonti oscure e controverse, sostengono che le loro inchieste verrebbero utili all’azione riformatrice del Papa. Prendiamola per buona (non lo è, ma ci è utile ai fini del nostro ragionamento). Dunque, per loro stessa ammissione, non è così vero che si è indifferenti all’effetto della loro pubblicazione; non è vero che tutta l’etica del cronista si risolve nel dovere di dare le notizie sempre e comunque, quale che sia il loro contenuto e la fonte da cui sono tratte. Quarto: se non le notizie in sé, l’interesse pubblico di esse, nel caso in oggetto, starebbe nella denuncia dello “scandaloso” scarto tra predicazione della povertà e comportamenti in vistoso contrasto con essa. Problema serissimo, intendiamoci, che non può essere esorcizzato quando i fatti parlano. Ciò detto, è difficile non rilevare nella stampa un accanimento mirato verso gli uomini di Chiesa, cui si domanda un ascetismo specialissimo. Quasi per il gusto di prenderli in castagna. La loro incoerenza, in certo modo, ci alleggerisce un po’ tutti nelle incoerenze nostre. Qui il discorso non è limitato ai giornalisti, ma a noi tutti: l’enfasi compiaciuta sulle miserie degli uomini di Chiesa ci fa sentire autorizzati ad essere vieppiù indulgenti con le miserie nostre. Se persino loro...
Insomma, mi sentirei di confutare la tesi sbrigativa secondo la quale il giornalista ha un solo dovere: quello di pubblicare le notizie. Tutto il resto non lo riguarderebbe. Una idea specialistica e selettiva dell’etica dell’informatore francamente limitata e deresponsabilizzante, che rifiuteremmo di sicuro se applicata ad altre professioni, quali ad esempio il medico, l’insegnante, il politico.
Franco Monaco
Grazie, caro Monaco, per gli interrogativi che pone e per il modo in cui lo fa. Da giornalista e anche da politico (visto che attualmente è deputato eletto nelle liste del Pd). Ma prima di tutto, a mio parere, da cittadino. Un cittadino che sa di che cosa parla e si pone in modo seriamente critico davanti a derive che sono in corso (anche) nel nostro Paese e che minacciano di condurre a un profondo snaturamento e a una ulteriore perdita di credibilità dell’informazione, strumento invece essenziale per una vita civile e per una democrazia degne di questi nomi. Il cosiddetto caso “Vatileaks 2” (ovvero l’attacco all’opera di riforma che papa Francesco sta portando avanti anche nelle strutture centrali della Chiesa) ha sottolineato di nuovo il problema, e così certi approcci informativi alla guerra che chiamiamo “terroristica” e che sta conoscendo una nuova acutissima fase. E lei, caro Monaco, si concentra su un gran nodo: davvero è assoluto dovere del giornalista pubblicare tutto ciò che entra nella sua “disponibilità” professionale, a prescindere dai modi con i quali determinati documenti e informazioni sono stati ottenuti e senza considerare le conseguenze di questo operato? Anche la mia risposta è, in sostanza e per principio, “no”. I cronisti possono scrivere tutto e devono valutare tutto, ma non tutto è assolutamente pubblicabile. E questo perché so – l’ho scritto e sostenuto apertamente senza temere smentite – che chi fa con libertà e responsabilità il mestiere che faccio anch’io, non può diventare (né in senso morale, né in senso materiale) ricettatore e/o ricattatore e neanche un “violentatore” della vita delle persone. Perché so che i cronisti anche quando scrivono libri, a meno che non si tratti di romanzi o di favole, hanno l’«obbligo» di garantire a lettori e spettatori «il rispetto della verità sostanziale dei fatti» (e dunque non possono offrire ricostruzioni parziali, edulcorate o esacerbate, comunque falsanti di nessun avvenimento, di nessuna vita personale, di nessuna realtà umana e religiosa). E infine perché so che il dovere di «buona fede» e di «lealtà» che grava su ogni giornalista comprende, senza se e senza ma, la non–cooperazione a crimini e propagande criminose. Mi rendo conto di aver scritto «non–cooperazione» (che somiglia tanto al coraggio “che uno si sa dare” e alla schiena diritta e alle tasche trasparenti “che uno si può permettere”), ma voglio dire e dico – all’unisono con colleghi che mi sono stati maestri di professione – «resistenza attiva» al cospetto di crimini di qualunque natura. Cioè, noi cronisti non possiamo e non dovremmo mai diventare complici e amplificatori – supini o maliziosi – di operazioni di oscura disinformazione, di spaccio di sporcizie o, come ho scelto di titolare in prima pagina giovedì scorso, di una qualche «congiura della paura».
Il tempo che stiamo vivendo ci sta mettendo in modo drammatico davanti a tale problema. Che è permanente, ma che già in altre fasi della nostra storia civile (penso, come è ovvio, soprattutto agli “anni di piombo”), abbiamo vissuto in modo lancinante e risolto, alla fine, con scelte sagge e coraggioso senso del limite e del bene più grande. Credo infatti che il metro della correttezza – ovvero del rispetto dato e ricevuto – nei confronti di chi ci legge, ci ascolta e ci guarda imponga a noi giornalisti di non aderire a logiche e modalità informative che non servono la verità, mortificano la libertà e danno più forza a mascalzoni o, peggio, ad assassini.