La morte di Yara è un fatto che ci inchioda alla verità della tragedia avvenuta. La morte di Yara è ora una notizia, scritta, letta e vissuta, che fissa nel quadro dell’attenzione l’epilogo nero d’una angoscia durata per mesi. La morte di Yara è un pensiero che si prolunga, oltre le emozioni dell’angoscia, in una cascata di domande che chiedono risposta, e alcune di esse risuonano più forti quando i clamori si spengono, nei cupi silenzi dell’anima. Quel che abbiamo trovato nascosto fra l’erba, quasi per caso dopo infinite ricerche vane, è il giovine corpo d’una bambina pugnalata. Altro ancora cerchiamo, com’è giusto, com’è necessario, sulla verità totale di questa vicenda dietro i sipari della morte, dietro l’orrore del delitto, fino alle estreme domande che fanno rimbalzare al cielo gli enigmi degli orchi terrestri e del dolore innocente.Parliamone, dunque, e riflettiamo. Viene spontaneo tenere in fuoco l’emozione, scorrendo le notizie centellinate dalla cronaca continua, in presa diretta, con le quali incrociamo il nostro bisogno di conoscere, di sapere. Il lavoro d’indagine tocca agli addetti, è vero, e ha le sue regole e la sua scienza; ma noi siamo lì da spettatori pensosi e non ce ne andiamo via, aspettiamo, ascoltiamo; è come avere ingaggiato la partita con la conoscenza del mistero del male. Il mistero ci invoglia a una meditazione profonda, faticosa nel suo bilico tra fede e disperazione. E d’improvviso, ecco vediamo irrompere dentro il mistero le categorie mediatiche dello spettacolo televisivo: il mistero spettacolo, l’orrore anatomizzato, la morte alla moviola, e poi l’inesauribile invenzione, le intime storie esplorate, analizzate, interpretate, e poi i luoghi, le cose, le reliquie, le memorie, le fantasie, le congetture.Nei talk-show televisivi che si nutrono di morti, l’accaduto umano finisce per diventare ingrediente di una curiosità che divora tutto.Forse la prima intenzione è virtuosa. Per esempio parlare di Yara, riflettere a lungo, cercare risposte, si può, si deve. Ma non così accade quando la tragedia si fa somigliare a una puntata circense, e il corpo d’un morto diventa un oggetto, una sorta di scatola nera, dentro la quale cercare le tracce della verità interpretabile alla stregua di soggettivi umori.Basta, non ne possiamo più del vaniloquio infinito dei tuttologi arruolati dai talk-show televisivi sulle nostre tragedie, della fantasia che si sbriglia in incursioni saccenti e insopportabili. Il dolore ci impedisce di sentirli pontificare ancora sui retroscena dei retroscena di Brembate, come già fu di Cogne, di Erba, di Perugia, di Garlasco, di Avetrana, al solo scopo di aizzare la curiosità, e talvolta persino di inventarla, su cosa c’era di marcio frugando fra gli intimi cesti, da esperti di marcio. Ma sì, vogliamo sapere e capire; tutto, tutto, ma senza spettacolo, senza pubblicità intermedia, senza proscenio di vanità, e con la regola che il giornalismo di informare e sapere è cosa diversa dal giornalismo dell’origliare e del guardare dal buco.Di fronte alla fatica degli inquirenti e degli organi di giustizia, il circo mediatico rischia, se non si sorveglia, una deriva perversa. La sua stupidità pubblicitaria ci delude, la sua disperazione intrinseca ci sfida. Si può correggere, volendo, se si accende in noi il pensiero sostitutivo, se la cronaca del male ci invoglia a chiedere giustizia, a fare giustizia, a invocare da ultimo, tutti insieme, la liberazione dal male.