Uscire da sé stessi non dal mondo (dialoghi sul muro)
venerdì 28 settembre 2018

Uno studente del liceo “Brocchi” di Bassano del Grappa ha scritto sulla facciata della scuola queste semplici e disperate parole: « There’s nowhere for me to be ». In inglese, «Non c’è nessun posto per me». Si sente solo e abbandonato, ma sbaglia, perché son passati solo due giorni e intorno alla sua scritta è tutto un fiorire di risposte: «Non mollare», «Sono qui per te», «Non sentirti giudicato», «Non ti lasceremo solo»... Cosa vuol dire «non sentirti giudicato»? Vuol dire «non sentirti condannato», e cioè non credere che il tuo isolamento sia frutto di una condanna e di un processo, e dunque in definitiva sia giusto. Non sei stato giudicato, non sei stato condannato, il tuo isolamento è ingiusto, quindi non sei solo, noi siamo con te perché siamo come te.

Qualcuno commenta: «La scritta è di una ragazza, lo si capisce dalla grafia». Ma qualcun altro ribatte: «Solo un ragazzo poteva scavalcare la recinzione di notte, per arrivare alla parete della scuola». Dunque non si sa nemmeno se colui a cui si rivolgono sia un ragazzo o una ragazza. Perciò la scritta e le risposte hanno un valore universale, valgono per tutti i ragazzi e tutte le ragazze. Vorrei unirmi a quelli che rispondono, e dare anch’io una risposta allo sconosciuto studente che ha lanciato quel lamento. Scrivendo «non c’è nessun posto per me» voleva dire che ci sono altri che un posto invece ce l’hanno. Errore. Forse lui pensa ai grandi, consegnati alla storia, quelli che lui studia sui libri di scuola.

Inventori, scienziati, poeti, pensatori. Tutti grandi e noti, tranne lui, piccolo e sconosciuto. Tutti al loro posto, tranne lui, che non ha nessun posto. Tutti necessari al mondo, tranne lui, del quale il mondo non sa cosa farsene. Se pensa questo, sbaglia. Guardi i grandi poeti: quando avevano la sua età, il mondo non aveva bisogno di loro, sono stati loro che, lavorando e scrivendo, hanno creato nel mondo il bisogno di loro.

L’anonimo che sta male, o che muore, incarna tutti, e proprio perché non è nessuno può essere tutti. È la genesi del mito e del simbolo del Milite Ignoto, il soldato caduto da sconosciuto e perciò onorato da tutti. I compagni (di classe, d’istituto, di età, perché a scrivere i biglietti di risposta ci sono anche studenti venuti da altre scuole) che rispondono non gli rispondono per consolarlo, ma per consolarsi, non si rivolgono a lui come a uno strano o sfortunato o incomprensibile, ma come a un fratello, uno come loro: anche loro soffrono perché nel mondo non trovano un posto su misura.

L’idea che nel mondo non ci sia un posto dove stare può far nascere la voglia di uscire dal mondo. «Non pensarci nemmeno – scrive una ragazza –, ci ho pensato anch’io, ma credimi non è la soluzione». Parole giuste. Questa ragazza vuol dire che anche lei s’era trovata scesa a quel livello di sofferenza, ma ora non si trova più lì, dunque è questione di saper resistere. Ma se questa esperienza è diffusa, perché tanta solitudine? Tanto isolamento? Tanta sofferenza? Perché c’è poca espressione.

Tra i 15 e i 20 anni i ragazzi non sanno esprimersi. Non i compagni con le compagne, né tanto meno le compagne con i compagni, né con un genitore, né con un professore, né con un prete. Il professore d’Italiano potrebbe spiegare che da quel sentimento nasce tanta letteratura, il prete potrebbe spiegare che un ragazzo non è senza posto nel mondo, ma al centro.

I 15-20enni non si confidano, e hanno bisogno di confidarsi. Il gesto rivoluzionario che ha avuto quello che ha messo la scritta con lo spray sul muro della scuola, è stato di esprimersi, che è un bisogno di tutti. «Ti aspetto in stazione, vieni e cercami» gli ha risposto un compagno. E se ci andasse davvero, in stazione, e scoprisse che chi gli risponde è il suo compagno di banco?

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