giovedì 15 gennaio 2009
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Per Tarso Gento, ministro della Giu­stizia del Brasile, Cesare Battisti è un "rifugiato politico" e la richiesta di e­stradizione fatta dalla giustizia italiana va respinta. Se ricondotto in Italia, dice, sarebbe perseguitato per le sue idee po­litiche. Forse lo aspettano 'giustizieri' paralleli. E poi, dice ancora, sarà proprio vero che in Italia il Battisti ha avuto a suo tempo un giusto processo, con tutti i dubbi che ci sono? Mi sembra uno schiaffo doppio alla giu­stizia, per il suo doppio aspetto politico e giuridico. Qui intendo occuparmi del solo aspetto giuridico, ma chiarisco su­bito che lo faccio di proposito perché l’o­rizzonte giuridico, in tema di terrorismo, è unico e totale, senza fantasmi di nobi­litazione pseudo-politica. A ciò mi invo­glia quel che dice la Convenzione euro­pea di Strasburgo del 1977 (scritta nel cuore degli anni di piombo) in materia di terrorismo e di estradizione. Voglio di­re, insomma, che sparare alla testa di un maresciallo della polizia penitenziaria che torna a casa dove l’aspettano la mo­glie e tre bambini (si chiamava Antonio Santoro) è un’infamia non "politica", è una infamia e basta. Come ammazzare il poliziotto Andrea Campagna, e i "civi­li" Sabbadin e Torregiani. Sangue è san­gue, sangue "politico" è nel terrorismo un linguaggio fol­le. Negli anni di piombo che in­sanguinarono la repubblica, nell’I­talia di 30 anni fa, il terrorismo ha fatto 349 morti e 750 feriti. Quattro di quei morti stan­no sulla fedina pe­nale di Battisti. La giustizia italiana ha percorso tutti i gradi dei processi a suo carico, corte d’assise, corte d’ap­pello, corte di cassazione, e l’ergastolo che ne è sortito è una condanna defini­tiva. Immaginare oggi un’assoluzione 'politica' da parte del ministro brasilia­no con la sconfessione, neanche troppo velata, del nostro giudicato, fa a pezzi lo stesso impianto della giustizia italiana, a guisa di una giustizia tribale. E invece quel poco di conforto che den­tro la tragica "notte della repubblica" ci rincuorò dai terrori fu la tenuta del po­stulato legale: che contro i terroristi non era 'guerra' (il loro sogno demente e provocatorio di parità con lo Stato), ma legge. Legge processuale e legge so­stanziale. La legge fu pure aspra, dentro l’emergenza, intanto che il picco della violenza segnava la media di quattro at­tentati al giorno; ma la Corte costitu­zionale la controllò e l’approvò (sen­tenza n. 15/1982). I processi non furo­no il rullo compressore lanciato a schiac­ciare il formicaio, sacrificando la cultu­ra garantista; furono processi con con­danne e con assoluzioni, con appelli re­spinti e accolti, con sentenze di cassa­zione confermative o rescissorie. Cesare Battisti ha avuto i suoi processi, le sentenze definitive, e ha un ergastolo da scontare, per la nostra giustizia; cer­cato in Francia, dopo anni di rifiuto nel 2004 fu estradato, ma fuggì. Che fosse da consegnare non fu detto solo dalla Corte francese, ma dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (dicembre 2006). Ora un ministro brasiliano dice di no, dice che è un rifugiato politico, che ha paura per la sua vita, per le vendette po­litiche. Manca, in tutta questa recita, l’unica grande parola che aprirebbe spiraglio alla novità d’un mutamento d’orizzon­te: la parola del pentimento, del distac­co dal delitto, o almeno dell’esecrazio­ne del delitto altrui, se dura la protesta d’innocenza giuridicamente vana. La giustizia italiana è tutto fuorché vendetta cieca. Ci può esser temperanza al casti­go accolto, se orientato all’emenda. Ma non c’è strada di clemenza che rifiuti la penitenza.
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