Una vergogna, proprio così
venerdì 25 marzo 2022

Ebbene sì, è una vergogna. È una vergogna che si parli (e si voti) a vanvera, con desolanti quasi unanimità, per piani di riarmo europeo e italiano condensati nell’annuncio stentoreo di una lievitazione almeno sino al 2% del Pil del capitolo di bilancio delle spese militari delle nostre democrazie. Meno male che il Papa lo dice chiaro e tondo che è una vergogna, scuotendo molte coscienze e infastidendo qualche incosciente.

E meno male che quella pioggia, anzi quella grandinata di soldi non è affatto incominciata e che, per quanto riguarda noi italiani, una prospettiva del genere (sinora mai formalmente ratificata dal Parlamento: un ordine del giorno non fa integrazione di bilancio) resterà senza senso sino al 2024. Sì, meno male.

E molto bene, invece, se si andrà oltre quella data e quest’intendimento di spesa armata, e tanto più in giorni in cui torniamo a vedere, e a capire, almeno nell’Ucraina di Zelensky aggredita dalla Russia di Putin, che la guerra è l’impresa più sporca e atroce che noi esseri umani continuiamo a fare e a lasciar fare, riducendoci letteralmente a pezzi e provocando miserie e lutti non solo là dove si combatte.

Meglio essere espliciti: se noi italiani avessimo davvero dieci-dodici miliardi di euro da stanziare sull’unghia, qualcuno dubita del fatto che sarebbe meglio metterli subito su sanità e scuola e famiglia con figli? Non è una domanda retorica e non è uno slogan facile, perché gli italiani (quasi tutti) hanno ormai capito che non c’è mai niente di facile quando si tratta di mettere soldi nelle poste di bilancio più necessarie e giuste.

L’importante è che sia chiaro che non c’è motivo di spendere anche un solo centesimo in più per gli apparati militari. E non soltanto per una sacrosanta obiezione di coscienza. Obiezione a un mondo ricco che non trova ancora le risorse morali e materiali necessarie per vaccinare e curare tutti gli uomini e tutte le donne del nostro pianeta ancora stretto nella morsa della pandemia. Obiezione a un mondo tecnologicamente avanzato che continua a far spendere alla parte più povera dell’umanità i soldi che non ha per acquistare e usare armi vecchie e nuove.

A noi, in verità, quest’obiezione morale basta. E basta la consapevolezza costituzionale che la Repubblica di cui siamo cittadini ripudia la guerra come strumento nelle relazioni con gli altri Stati. Ma è giusto essere pragmatici e realisti in una Terra infestata di armi e di arroganze sempre più letali, capaci replicare su ogni scala, con identica ferocia e con conseguenze persino apocalittiche, la distruzione della vita. Lo sappiamo: la 'deterrenza' – ovvero, più crudamente, l’equilibrio del terrore costruito sulla minaccia del reciproco annichilimento – aiuta a non scannarsi troppo mentre si dovrebbe preparare la pace vera, che sempre unisce la libertà e la giustizia. Siamo anche realisti, dunque, oltre che indignati per la protervia riarmista di troppi.

E diciamo che si può e si deve, piuttosto, spendere molti miliardi in meno per le strutture militari, ottenendo – grazie a economie di scala e a un oculato riorientamento delle risorse – uno strumento di difesa militare europeo meno costoso eppure più efficiente e potendo, al tempo stesso, investire seriamente in quella grande, costruttiva, civilissima politica di difesa attiva che si chiama cooperazione internazionale allo sviluppo. Il motivo l’ha spiegato pochi giorni fa in poche battute il presidente del Consiglio Mario Draghi, che non si è esattamente sottratto al coro riarmista, ma i conti li ha sempre saputi fare e non si è deconcentrato nemmeno nel frastuono rintronante dei bombardamenti e dei proclami bellici che li accompagnano.

La spesa complessiva per armi degli Stati europei della Nato (più di 330 miliardi di dollari, più i quasi 70 della Gran Bretagna) supera di gran lunga quella del- la Russia, tra tre e quattro volte tanto (il premier Draghi lo ha ricordato l’11 marzo, a Bruxelles, e Luca Liverani lo ha dettagliato il 23 marzo, sulle nostre pagine). Chiunque, insomma, ma soprattutto chi siede in Parlamento e chi s’intende anche minimamente di economia, dovrebbe aver chiaro che c’è soprattutto una cosa da fare con decisione: far decollare per davvero, purtroppo con settant’anni di ritardo rispetto all’intuizione dei padri dell’Europa comunitaria, un’integrazione degli Stati dell’Unione – o di almeno un nucleo trainante – che faccia perno su una comune politica estera e di difesa.

Un’opzione limpida e solida nella realtà internazionale multipolare di oggi, nella quale la politica e la cooperazione sono la prima difesa della pace, e con le armi non si fa la politica. Ci sono pochi e sensati passi da compiere nella nebbia armata di guerra e di morte che ancora grava sul mondo e ora dolorosamente sull’Europa. E non possono essere, vergognosamente, per entrarci ancora più a fondo. Ma per uscirne.

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