venerdì 13 marzo 2009
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La «parola chiarificatrice» scritta da Bene­detto XVI sulla remissione della scomuni­ca ai quattro vescovi 'lefebvriani' – ieri pub­blicata – incanta e ad un tempo conforta. In­canta perché scritta con uno stile e un lin­guaggio non solo poco usuali, ma inediti. Egli si rivolge ai confratelli vescovi – ma, ovvio, non solo a loro – con il cuore in mano. E un tono molto personale. E con il candore di chi non ha nulla di proprio da difendere. Ammette que­gli alcuni «sbagli» intercorsi nella vicenda (as­sumendosi in prima persona le responsabi-­lità), e propone dei rimedi anche molto con­creti (vedi l’uso di internet). Confessa in mo­do disarmato il dolore provato dagli attacchi subìti – e a far soffrire sono stati più i colpi ar­rivati dall’interno che non quelli esterni alla Chiesa –, sferrati da chi non aveva capito o non ha voluto capire il suo gesto di misericordia. A tutti spiega o, meglio, rispiega il perché di que­sta decisione. Lo fa con profonda umiltà e con grande energia interiore. Umiltà perché il Pa­pa di per sé non era tenuto a questa ulteriore spiegazione, che in effetti nessuno si aspetta­va. Energia perché ribadisce e conferma la pro­pria decisione, argomentandola da par suo e inserendola pienamente nell’ambito proprio della sua missione di successore di Pietro. Ri­sponde così a chi non aveva capito, o non ha voluto capire, quale fosse la posta in gioco, e quindi le ragioni della necessità – ora – della remissione della scomunica. E a chi – più o meno ingenuamente – era stato indotto a pen­sare che quella con i 'lefebvriani' fosse sem­plicemente una 'sua' personalissima e un po’ maniacale fissazione, e non piuttosto una stra­tegia giovevole a tutta la Chiesa odierna. E qui arriva il motivo del conforto. Benedetto XVI con questa sua lettera mostra come, cat­tolicamente, il chiarimento su un fatto con­tingente può diventare l’occasione per trarre un insegnamento universale. Con stile sa­pienziale, e un afflato quasi patristico, il Papa ricorda qual è la sua missione essenziale, qual è cioè «la prima priorità» che Gesù ha affidato a Pietro («Tu... conferma i tuoi fratelli») e quin­di spiega che oggi – «in questo nostro momento della storia» in cui «Dio sparisce dall’orizzon­te degli uomini» – la «priorità suprema e fon­damentale della Chiesa e del successore di Pie­tro » non può non essere che questa: «Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nel­la Bibbia». E che da questa grande priorità – ri­corda sempre il Papa – « deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’u­nità dei credenti», quindi la causa ecumenica e, in un certo senso, il dialogo interreligioso, ma anche – e prima di tutto – la convergenza cor­diale all’interno della comunità cattolica. Di conseguenza – è il ragionamento stringente del Papa – anche le «riconciliazioni piccole e medie» rientrano per la forza della comunio­ne nella «vera priorità della Chiesa». Quasi a di­re che chi, nella comunità cattolica, si mostra così attento al dialogo con le altre confessioni cristiane e con le altre tradizioni religiose non può poi pretendere che rimanga sbarrata la porta verso una realtà che comunque conta migliaia di fedeli e 491 sacerdoti. In altre pa­role, che una scelta inclusiva non può essere strumentalmente selettiva. Il che non vuol di­re ovviamente che il Papa faccia sconti ai le­febvriani. Anzi, la significativa scelta annun­ciata nella lettera (e poi si dice che Benedetto XVI non governa…) di collegare la Commis­sione Ecclesia Dei alla Congregazione per la Dottrina della Fede sta a significare che il dia­logo dottrinale sarà serrato fino a una totale chiarificazione e questa non potrà non passa­re attraverso il riconoscimento del Vaticano II e del magistero pontificio post-conciliare. Ma anche i sedicenti «grandi difensori del Conci­lio » – e qui torna l’ermeneutica della conti­nuità – devono ricordare che «il Vaticano II por­ta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa». Infine, a brillare nella lettera del Papa è il rea­lismo. Che si manifesta soprattutto nell’ulti­ma parte, quando vengono evocate le parole di Paolo ai gàlati («ma se vi mordete e divora­te a vicenda…») che tanto hanno eccitato i ti­tolisti dei giornali di ieri. Benedetto XVI ci ri­corda che noi oggi, in fondo, non siamo mi­gliori di quei gàlati. E che «purtroppo questo 'mordere e divorare' esiste oggi nella Chiesa come espressione di una libertà male inter­pretata ». Ma grazie all’intercessione della Ma­donna della Fiducia egli confida – e pure que­sto è realismo cristiano – che suo Figlio Gesù ci sarà affidabile guida anche in questi «tem­pi turbolenti».
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