«Nel nome di Dio, liberateli». Ci voleva un accorato appello di Benedetto XVI per accendere i riflettori sul drammatico ultimatum che riguarda tre operatori umanitari sequestrati nelle Filippine, tra cui l’italiano Eugenio Vagni. I cooperanti della Croce Rossa sono nelle mani di un gruppo estremistico separatista dal 15 gennaio, quando furono catturati sull’isola meridionale di Jolo, in cui spadroneggia il gruppo terroristico islamico Abu Sayyaf. Entro stamattina l’esercito di Manila dovrebbe ritirarsi totalmente, altrimenti uno degli ostaggi sarà decapitato, è il macabro messaggio recapitato ieri alle autorità. Una richiesta di difficile esecuzione logistica, anche se il governo accettasse le condizioni poste dai guerriglieri. Sono passati oltre due mesi dal giorno in cui Vagni, esperto di approvvigionamenti idrici, con i suoi colleghi – lo svizzero Andreas Notter, e la filippina Mary Jean Lacaba –, fu vittima di un’imboscata dopo essersi recato in una prigione per cercare di migliorare le condizioni dei detenuti. La sua unica colpa, e il richiamo per i rapitori, è quella di essere occidentale, quindi preziosa merce di scambio. Merce paradossalmente rivelatasi meno appetibile – non sembri cinismo, è una constatazione – proprio perché, almeno in Italia, alla sorte di Vagni non ci si è appassionati molto. Per il tecnico di Montevarchi, 62 anni, moglie filippina e una figlia piccola, iniziative di solidarietà a livello locale, nella provincia di Arezzo, ma scarsa mobilitazione nazionale. Un po’ come accadde per Giancarlo Bossi, il missionario del Pime rapito sempre nel Sud delle Filippine due anni or sono, la cui vicenda si concluse felicemente con la liberazione, senza che però il nostro Paese gli riservasse quell’attenzione e quella solidarietà che hanno invece accompagnato altri ostaggi in diversi scenari bellici. Il ministero degli Esteri, come in passato, sta seguendo da vicino la trattativa e agisce comprensibilmente senza clamore. Ma il caso degli operatori della Croce Rossa è emblematico di una situazione che meriterebbe ben maggiore attenzione, non solo per l’immediato pericolo di vita dei tre (uno dei quali connazionale). La parte meridionale dell’arcipelago asiatico è da anni nella morsa del fondamentalismo, in alcune sue frange legato ad al-Qaeda e determinato a instaurare uno Stato islamico nella regione. Una nuova entità creata con la violenza e fondata sull’intolleranza. Tra gli obiettivi principali di Abu Sayyaf, vi è la presenza cattolica minoritaria eppure consistente di quelle isole, oltre a scuole e luoghi pubblici; i loro mezzi di lotta e finanziamento sono le estorsioni. Lo stesso dietrofront delle forze armate intimato dai terroristi rischierebbe di mettere a rischio molte altre persone, lasciate a quel punto senza una difesa. Il messaggio del Papa, «affinché il senso umanitario e la ragione abbiano il sopravvento sull’intimidazione», vuole rilanciare anche l’istanza di pacificazione per tutte le popolazioni coinvolte. Si può sperare che l’ultimatum, come altri precedenti, non venga seguito dalla 'sentenza' annunciata. Ma se pure si guadagnasse tempo, la trepidazione per gli ostaggi in condizioni sempre più precarie non verrebbe certo meno. Un 'ambasciatore' della solidarietà come Eugenio Vagni è un silenzioso testimonial dell’Italia all’estero che merita, insieme con la sua famiglia e i suoi compagni di sventura, le nostre preghiere e la nostra vicinanza.