La strage di Kabul ha toccato, come nei giorni dell’eccidio di Nasiriyah, il cuore degli italiani. Ed è il rigoroso e dolente lavoro svolto dai giornali, dalle radio, dalle televisioni e dai siti internet che, ancora una volta, con una istantaneità altrimenti inimmaginabile, ci sta aiutando a essere – e a manifestarci – popolo e famiglia in questo drammatico momento della nostra storia condivisa. È importante che accada. E ci fa riflettere – se appena riusciamo a tenere limpido lo sguardo, a vincere l’emozione e a elaborare il lutto – su che cosa possono e sanno fare i mass media del nostro Paese, quando con varietà di timbri e straordinaria libertà d’accenti informano e, informando, costruiscono con responsabilità salde basi al ragionare e al sentire comune. Una riflessione bella e triste. Che, purtroppo, si fa subito amara. Nello stesso momento, infatti, sulle pagine di gran parte dei giornali ha trionfato tutt’altro modo di fare informazione. Il respingimento di un ricorso contro l’atto di indirizzo con il quale il ministro Sacconi aveva richiamato, in pieno caso Eluana, i princìpi ordinamentali che dovrebbero impedire di attuare 'protocolli di morte' nel nostro sistema sanitario nazionale è diventato l’opposto in titoli e testi: addirittura l’accoglimento di quel ricorso, addirittura la bocciatura di una legge in itinere (quella sulla fine della vita). Un’idea impensabile, eppure pensata e scritta. E comunicata come vera. Sta scritto nero su bianco su tante, troppe, pagine di giornale: ricorso accolto, testo di legge picconato. Notizie sbagliate, eppure date per buone. Meglio essere chiari, allora. Qui, oggi, alla vigilia di quella che avrebbe dovuto essere la giornata nazionale di mobilitazione per la libertà di stampa promossa dal sindacato unitario dei giornalisti e che il lutto per i morti di Kabul ha saggiamente indotto a rinviare, non vogliamo parlare di «fine vita» e neppure di Afghanistan. Vogliamo parlare della responsabilità intermittente con la quale in Italia si continua a fare informazione. Della contemporaneità infelice tra alto e civile rigore informativo e vertiginose cadute nell’approssimazione e nella deformazione ingiusta e persino deliberatamente feroce. Noi di Avvenire possiamo dirlo, non perché siamo più bravi e non sbagliamo mai, ma perché in questo giornale opinioni e cronache, anche le più forti e decise, sono sui fatti e sui misfatti di cui ci occupiamo, non su ciò che vorremmo che fosse accaduto (e quando facciamo un errore, almeno proviamo a riparare e a chiedere scusa). Noi di Avvenire dobbiamo dirlo, mentre è ancora aperta la ferita inferta dall’infame e infamante aggressione mediatica scatenata, a suon di carte false, dal 'Giornale' di Feltri contro il direttore Dino Boffo; mentre ancora bruciano i ripetuti tentativi di decidere fuori dalla nostra redazione che cosa andiamo scrivendo (i nostri editoriali e i nostri commenti rimaneggiati arbitrariamente...) e quale sia stata e sia la linea del giornale. E noi di Avvenire continueremo a dirlo. In Italia, la libertà di stampa è a rischio tanto quanto la credibilità dei giornalisti. Nella stessa esatta misura. Più i cronisti si allontanano dal dovere di informare con rigore e correttezza, meno sono credibili. E meno sono liberi. L’esercizio senza responsabilità della libertà di stampa – lo ricordiamo ancora, e prima di tutto a noi stessi – non è libertà, è arbitrio. È un problema della nostra categoria. È un problema della nostra democrazia. E di fronte a questo problema qui in redazione sappiamo di avere una risposta semplice e diretta: noi non cambiamo. Qualunque cosa sia accaduta, qualunque cosa accadrà, Avvenire non cambia. Perché così lo vuole la sua comunità di riferimento, a sua volta responsabilmente gelosa della propria soggettività e della propria libertà. Nessuno ci strattoni, insomma: non ci facciamo arruolare, né ci facciamo intimidire. Avvenire è il giornale di ispirazione cattolica, e non rinuncia alla sua autonomia e alla sua indipendenza. Io non so che cosa faranno i miei colleghi tra quindici giorni, quando la Federazione della Stampa chiamerà di nuovo a manifestare per la libertà d’informazione. Ma so che cosa pensano e come lavorano. So che buon giornalismo hanno fatto e vogliono continuare a fare. So che sono uomini e donne liberi e responsabili. E so che da più di quarant’anni il giornale Avvenire non va in piazza, va in edicola. Piaccia o non piaccia.