È probabile che il ministro Nordio, tenuto conto della sua esperienza e della sua competenza, sia il primo ad essere consapevole dell’infondatezza dell’azione disciplinare da lui promossa nei confronti dei giudici della Corte di appello milanese che hanno sostituito la custodia cautelare in carcere dell’estradando Artem Uss con gli arresti domiciliari assistiti da dispositivo elettronico di controllo (c.d. braccialetto). Decisione che costituirebbe, secondo l’incolpazione, ”un comportamento connotato da grave ed inescusabile negligenza”.
La normativa sugli illeciti disciplinari in verità censura “la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”. Se il Ministro riferisce genericamente la gravità a un comportamento, anziché alla violazione della legge, come dovrebbe, è appunto perché, verosimilmente, è ben cosciente che una violazione di legge nel caso di specie non si può configurare in alcun modo, tanto meno nella sua forma grave e determinata da ignoranza o negligenza inescusabile: ci troviamo, infatti, dinanzi alla ordinaria opinabilità dei provvedimenti giudiziari.
L’addebito ministeriale ai giudici finisce per risolversi nell’asserita sottovalutazione dei dati a loro conoscenza. Un addebito che, quand’anche fondato, non potrebbe mai dar luogo a responsabilità disciplinare: questa, infatti, è espressamente esclusa per l’attività di « valutazione del fatto e delle prove» (art. 2 comma 2 d. lgs. n. 109 del 2006).
E del resto sarebbe costituzionalmente inammissibile per violazione dell’indipendenza della magistratura un’opposta previsione, alla cui stregua il giudice risponderebbe di illecito disciplinare ogniqualvolta l’autorità politica dissentisse, a torto o a ragione, dal contenuto di un suo provvedimento. Prospettiva che, di certo, lo stesso Ministro non sarebbe disposto a sottoscrivere.
L’intrapresa azione disciplinare resta, dunque, un’inquietante forzatura. Né può certo bastare a giustificarla la circostanza che il titolare di via Arenula sia in buona fede convinto della giustezza dei suoi rilievi critici: la verità è che il Ministro avrebbe esondato dalle proprie prerogative anche qualora questi avessero fondamento.
D’altra parte, se davvero fossero censurabili le valutazioni che hanno indotto a ritenere sufficienti gli arresti domiciliari, il Ministro - privo, come ha ineccepibilmente chiarito, di un potere di impugnazione - avrebbe avuto già da mesi il dovere di agire disciplinarmente. O si vuole affermare che la censurabilità dei provvedimenti di un magistrato possa dipendere dalla condotta dell’imputato? Eppure nessuno può seriamente sostenere che, ove Uss non si fosse sottratto agli arresti domiciliari, si sarebbe ugualmente intrapresa un’azione disciplinare.
Quest’ultima considerazione mette in luce l’estrema gravità della vicenda, che va persino oltre l’interferenza del potere politico nell’esercizio della discrezionalità giudiziaria, come pure è stato denunciato da più parti. La peculiarità del caso in esame risiede nella circostanza che l’addebito disciplinare non riguarda un provvedimento con cui si assolve o si condanna, bensì una decisione basata su una valutazione prognostica: che per fronteggiare il pericolo di fuga, cioè, non fosse necessario ricorrere alla custodia cautelare in carcere. Una decisione che, come tutte quelle di natura predittiva, sconta una fisiologica percentuale di errore. Se mai passasse il principio che il magistrato debba risponderne, si affermerebbe fatalmente una “giurisprudenza difensiva”.
Nell’inevitabile margine di incertezza che connota ogni previsione, sarebbe comprensibilmente prudente adottare sempre la misura più restrittiva: a disporre o mantenere la custodia cautelare in carcere dell’imputato o a negare una misura alternativa al condannato, non si rischierebbe nulla.
La preoccupazione disciplinare per i magistrati sarebbe così scongiurata, ma il prezzo pagato dall’ordinamento sarebbe altissimo: verrebbero lese irreparabilmente la presunzione di non colpevolezza dell’imputato (art. 27 comma 2 Cost.) e la presunzione di recuperabilità del condannato (art. 27 comma 3 Cost.), che nelle situazioni di dubbio dovrebbero orientare in direzione opposta, addossando il rischio dell’errore alla collettività e non all’individuo.