A scorrere i dati disaggregati dell’economia mondiale verrebbe solo da mettersi le mani nei capelli. Nel quarto trimestre 2008 il Pil americano è sceso al 6,2% su base annua, il peggior risultato dal 1982 dovuto principalmente alla riduzione dei consumi, al calo delle scorte aziendali e al calo delle esportazioni. Allo stesso tempo, nonostante le immani iniezioni di liquidità e i progetti di nazionalizzazione, il settore bancario statunitense è in rosso di almeno un trilione ( ovvero un milione di miliardi) di dollari a causa delle perdite rovinose causate dalla crisi dei mutui iniziata nell’estate del 2007 e proseguita con i fallimenti, le fusioni, i disperati salvataggi protrattisi per tutto il 2008. L’Europa non sta meglio: le banche del Vecchio continente sono in affanno per le forti esposizioni nei confronti dei Paesi dell’Est, fra i quali ve ne sono alcuni, come la Lettonia, che da promettente matricola dell’Unione europea si sta trasformando in una nazione dal Pil in caduta libera, la disoccupazione in forte crescita e la seria prospettiva del fallimento e dei disordini sociali che ne seguirebbero. Anche il Giappone, seconda economia mondiale, è in pesante sofferenza: la produzione industriale crolla al ritmo record del 10%, i consumi delle famiglie frenano del 5,9%, il settore automobilistico, vero e proprio cuore pulsante della ricchezza nipponica, ha perso a gennaio il 41% su base annua, il peggior dato dal 1967. Per tutto il ricco mondo occidentale il denominatore comune è da tempo uno solo, recessione, per non dire – e ci si sforza di non dirlo – grande depressione, come accadde negli anni Trenta del secolo scorso. Tuttavia, nonostante questo impressionante bollettino della salute economica del mondo, abbiamo concreti indizi per rinunciare al catastrofismo cui si sarebbe tentati di abbandonarsi. La ragione principale sta nelle risorse delle singole nazioni. È vero, i grandi Paesi stanno affannosamente cercando il modo di riscrivere le regole, di dare cioè ai mercati, alle imprese, ai cittadini quella fiducia senza la quale non vi può essere alcuna ripresa. «Nessun mercato finanziario – dicono –, nessun prodotto dei mercati finanziari, nessun azionista del mercato finanziario può agire senza regole e senza controlli » . È esattamente questo che i vari G7, G8, G20 (cruciale potrà essere a questo proposito quello del 2 aprile prossimo con la presenza di Barack Obama) si ripromettono di fare. Perché dunque non indulgiamo al catastrofismo? Per almeno due motivi. Il primo di natura, diciamo così, campanilistica. L’Italia – a cagione della sua propensione al risparmio, al relativo provincialismo del suo sistema bancario e al basso rischio che i suoi imprenditori amano correre – vivrà al massimo un paio d’anni di stagnazione e poi si riprenderà. Esattamente come fanno le piccole imprese rispetto a quelle grandi: più snelle, più rapide nel cogliere i mutamenti, meno affardellate di oneri. La seconda ragione riguarda l’impalpabile mutazione genetica in atto nel mondo: ciascun Paese, per quanto cerchi di negarlo, sta provvedendo da sé al proprio salvataggio, in barba alle regole condivise, ai trattati sottoscritti e ai parametri che dovrebbe osservare. Forse questa sarà la fine dell’Unione europea come l’avevano concepita in primo luogo gli gnomi di Bruxelles, al pari di varie altre istituzioni concepite belle sulla carta, mentre poggiavano su squilibri inaccettabili e crescenti. Ma proprio grazie a queste cure fai- da- te potrebbe dal disordine, a tasselli successivi, spuntare un quadro mondiale pronto a quel punto – e solo a quel punto – ad accettare e adottare regole nuove, più realistiche e più attente al vissuto dei popoli. Questo almeno è ciò che oggi speriamo, lottando contro il pessimismo della ragione.