Dal punto di vista dell’iter parlamentare, il varo della manovra per il 2024 rappresenta un unicum di cui occorre ben guardare i rischi a breve e medio termine. Premesso che tutti gli ultimi governi non si sono distinti nella valorizzazione delle Camere durante la sessione di bilancio (anzi, hanno fatto a gara a ridurne progressivamente i margini di intervento), quanto sta accadendo in questi giorni è comunque una novità assoluta che non può non aprire serie riflessioni sullo stato di salute della nostra democrazia parlamentare.
Nelle precedenti manovre, infatti, si preservava, attraverso i lavori di una delle commissioni Bilancio delle due Camere, una seppur limitata possibilità di intervento correttivo delle forze politiche sia di maggioranza sia di opposizione. L’esecutivo di turno poi si faceva carico di una sintesi attraverso il cosiddetto “maxiemendamento”, che poi doveva incassare in fretta e furia, e a colpi di fiducia, il sì di Montecitorio e Palazzo Madama. Dopo il varo in Consiglio dei ministri della seconda Legge di bilancio del governo Meloni, invece, sono giunti “inediti” indirizzi della premier e di pezzi dell’esecutivo a «non presentare emendamenti» di maggioranza. Questa volontà del governo di azzerare i possibili “intralci” dell’iter parlamentare, poi parzialmente rettificata, ha portato a una situazione di totale stasi in attesa che il governo stesso provveda a propri emendamenti, resisi indispensabili sia per le proteste dei sindacati sia per malumori politici interni alle stesse forze che sostengono l’esecutivo.
La Manovra 2024 del governo Meloni, dunque, va a rappresentare un precedente politico. E considerando che gli esecutivi tendono a fare proprie le prassi più discutibili adottate da chi è venuto prima, c’è da temere seriamente che altri premier avranno in futuro la tentazione di replicare il modello «emendamenti parlamentari zero». D’altra parte, le cronache d’Aula sono piene di presidenti del Consiglio che, per difendersi, sono usi ricordare come «chi c’era prima abbia fatto peggio». Ma in questo caso la posta in gioco è altissima: interventi da 30-40 miliardi che entrano nella carne viva del Paese senza che i deputati e i senatori scelti dal popolo possano dire una sillaba.
È chiaro che questa situazione evidenzia sempre più lo stato di grave sofferenza del nostro bipolarismo perfetto. Un sistema che nessuno intende tornare a discutere dopo l’esito del referendum del 2016. Pure la recente riforma costituzionale varata in Consiglio dei ministri si guarda bene dal tornare sul tema delle due Camere uguali e identiche in ogni prerogativa. Anche, forse, per una forma di “superstizione politica”.
Il governo ha preferito investire su un tema più chiaro nella percezione dell’opinione pubblica: l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Eppure, pur senza assumere toni preventivamente “drammatici”, c’è da chiedersi a cosa porterebbe questo combinato disposto tra due Camere immobilizzate nell’atto economico più importante (la Legge di bilancio) e un premier che, oltre ai poteri che già gli consegna la Costituzione, a quelli “informali” accumulati attraverso le prassi e a quelli che ha accentrato inseguendo un’emergenza dopo l’altra, potrebbe mettere sul tavolo sia il significato simbolico di una elezione diretta sia il portato concretissimo del nuovo dettato costituzionale per cui con il premier cade di fatto anche la legislatura. Eppure tale scenario, che ha a che fare con la forma e la sostanza della democrazia in un futuro non così lontano, sembra venire assorbito dall’opinione pubblica senza particolari sussulti. Anzi: quasi senza attenzione.