È una questione di speranza. La colletta per i terremotati d’Abruzzo che verrà fatta domani in ogni parrocchia d’Italia è una questione di speranza. Non semplicemente di soldi – per quanti ne occorrano, e molti, per ridare una casa a ventimila senzatetto, una sistemazione provvisoria a chi attende di riparare le tracce degli artigli del terremoto, o una chiesa a chi prega in una tenda. La mano che verrà tesa ai fedeli italiani, a messa, chiede un aiuto concreto, eppure domanda anche altro. Domanda un segno: un essere accanto a queste popolazioni di una regione chiusa tra le montagne, non ricca, una terra da cui da sempre si emigra. Terra spesso rimasta antica. Terra che non ha perduto la sua memoria (su quante, delle pareti in bilico sulle case sventrate, in questi giorni abbiamo visto ancora appese quelle immagini sacre che nelle nostre case moderne ignoriamo). Solidarietà, dunque, certo. Ma perché, una questione di speranza? Per dirlo dobbiamo ricorrere alle parole che abbiamo sentito, nelle tendopoli, accanto alle rovine, da preti, suore, semplici cristiani. Perché un giornalista arriva da Milano, sa di avere intatta la sua casa, i suoi figli, e davanti a chi ha perso tutto prova quasi una imbarazzata vergogna. Domandi allora, come abbiamo chiesto noi a una suora con i capelli grigi, a Collemaggio, sfollata da un convento duramente lesionato: e adesso? La vostra casa, la vostra scuola, e ora? E quella con i suoi sessant’anni, quieta, risponde: «Se Dio ci ha tolto tutto, significa che vuole che ricominciamo da capo». Semplice, parrebbe quasi (ma quanto atrocemente difficile per noi, gente normale, che fa conto su ciò che possiede). Dio, ci han detto a Collemaggio, vuole che ricominciamo da capo. Fede antica, ti dici allora, fede d’altri tempi e d’altre generazioni, mormori tra di te andandotene. Ma poi incappi in un altro, un prete del Sud venuto qui a aiutare, don Pasquale, trent’anni e una faccia da ragazzo. Anche a lui chiedi conto, chiedi ragioni davanti a tanto dolore, nelle tende di Onna, il paese della strage. «Un vecchio, ieri – risponde lui – mi ha detto: questo, è un castigo. Non è vero, gli ho risposto. Tutto questo strazio, deve essere per un bene più grande». (Che è, declinato in poche parole sotto a una tenda, nel freddo di una sera d’Abruzzo, concetto agostiniano: ogni male, è per un bene più grande). Memoria cristiana, fede ereditata. Ma sentire parlare così uno che potrebbe quasi essere tuo figlio, credeteci, meraviglia e commuove. Come commuove il giovane prete polacco, parroco di Arischia, sull’Appennino, che all’alba di quel lunedì è tornato nella sua chiesa disastrata e pericolante, per portare in salvo le ostie consacrate. C’è una speranza in Abruzzo, nella chiesa di Abruzzo e nella gente che in questi giorni vedevi a messa, senza che fosse domenica, attorno ad altari improvvisati sulle cucine da campo. La terra li ha traditi, la casa li ha traditi, e in molti hanno addosso un lutto lacerante – un figlio, un padre che non hanno fatto in tempo a salvare. Eppure, più che rabbia, più che ribellione, vedi qualcosa che sembra ora una percossa ma tenace fedeltà, ora un tenere duro da roccia, ora, come in quella suora, in quel prete, una speranza certa. Qui hanno bisogno di case, di scuole, di tutto, e per questo domani nelle chiese verrà stesa la mano. Ma nel ricostruire, nel ridare – almeno ciò che umanamente può essere ridato – c’è il senso dell’alimentare e abbracciare la speranza di un popolo. «Da questo male, un bene più grande», è il respiro che abbiamo ascoltato in Abruzzo. La speranza degli uomini è fatta anche di case, mattoni, fabbriche. La speranza è anche carne, e va nutrita (anche in tempi stretti, di crisi, ci viene detto: qualcuno è più povero). Occorre dare un segno. Laggiù ci credono: «Dio, vuole che ricominciamo da capo».