È stato sicuramente un momento eccezionale, di toccante simbolismo e di straordinaria capacità evocativa, l’atto della preghiera congiunta voluto da Papa Francesco con il Patriarca di Costantinopoli e i presidenti israeliano e palestinese nei giardini vaticani. Un atto adeguato all’eccezionalità della sfida che si trova di fronte il tentativo di far ripartire il sempre più malconcio "processo di pace" israelo-palestinese, sulla cui strada, negli anni, i problemi si accumulano senza sosta. Chi segue da vicino le questioni mediorientali sa bene come appaia arduo il cammino che possa portare a una pace equa, la sola pace possibile. Osservando la situazione con realismo, occorre dire che le difficoltà si incontrano tanto nel campo israeliano quanto in quello palestinese, mentre neppure la situazione regionale offre grandi motivi di ottimismo.Per quanto riguarda Israele, il governo presieduto da Benjamin Netanyahu prosegue imperterrito con la sua politica di favorire gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania e a Gerusalemme. Al di là di quelle che possono essere le motivazioni ideologiche ed elettorali di una simile condotta, è difficile non cogliere al suo interno anche elementi di vera e propria provocazione, apparentemente volti proprio a sabotare qualunque soluzione pacifica della questione arabo-israeliana che non coincida con la più totale e umiliante sottomissione dei palestinesi. Questo è un dato di fatto con cui occorre fare i conti e che non appare destinato a cambiare nel breve o nel medio periodo. In campo palestinese, d’altronde, il riavvicinamento tra Hamas e Olp, perseguito con determinazione da Abu Mazen per rinforzare la sua periclitante popolarità e per ridare unità allo sforzo nazionale palestinese, sta producendo un ulteriore irrigidimento nella leadership israeliana che continua a vedere in Hamas una vera e propria minaccia esistenziale. Per ragioni diverse, tanto Netanyahu quanto Abu Mazen si sentono vincolati alla "coerenza" con le proprie politiche, e tutto ciò, ovviamente, non fa che rendere più difficile qualunque genuino sforzo di riavvicinamento reciproco.Venendo al quadro regionale, neppure lì le cose volgono al meglio. La guerra civile siriana continua durissima e il rischio di un suo tracimare, in un tragico
spill-over, in Libano e persino in Giordania è tutt’altro che remoto. Il coinvolgimento delle milizie di Hezbollah nel conflitto siriano, con il conseguente ribaltamento della situazione tattica a favore di Assad, è visto con enorme preoccupazione a Tel Aviv. Paradossalmente, dopo aver a lungo silenziosamente parteggiato per il regime di Assad, oggi il governo israeliano vede proprio nella vittoria del regime sulle ali del decisivo contributo del "Partito di Dio" libanese la materializzazione di un incubo. La possibilità di una protrazione indefinita della guerra civile, d’altronde, non sembra offrire una miglior prospettiva, considerando il ruolo crescente assunto dai gruppi jihadisti e qaedisti all’interno dell’opposizione anti-Assad. Ma il vicolo cieco strategico in cui si trova Israele non può certo rallegrare il fronte palestinese, che si è distaccato sempre più dal regime damasceno ma teme che la vittoria degli estremisti siriani possa scatenare effetti devastanti sia in Cisgiordania sia nella polveriera di Gaza.Come se tutto ciò già non bastasse a rendere la situazione critica, c’è poi la stanchezza americana per il Medio Oriente, collegata peraltro al fallimento complessivo del progetto di garantire dall’alto la transizione della regione in una direzione più organica rispetto ai propri interessi. Il progetto egemonico degli Usa in Medio Oriente non è archiviato, ma è tornato alle più consuete pratiche dell’
indirect rule, cioè di fatto concedendo ai propri partner regionali (Israele e Arabia Saudita) carta sostanzialmente bianca nella regione."Ci vorrebbe un miracolo", verrebbe da dire, per rimettere in carreggiata la carovana del processo di pace. Ancor di più sarebbe necessario un cambio di passo, se non di rotta, e una lungimiranza che molto probabilmente l’incontro dei giorni scorsi voleva contribuire a provocare. Non per contrapporre l’idealismo al realismo, ma per illuminare il secondo con la forza del primo. E per mettere a dimora, con coraggio, un seme forte nel tempo che viviamo, proprio mentre appare – e certamente è – più difficile.