Noi non facciamo titoli a tutta pagina. O, meglio, non li facciamo quasi mai. Quello che pubblichiamo oggi, infatti, non è un titolo nostro. È un titolo di tutti, perché siamo disposti a prestarlo a tutti in questo Paese dove nessuno corregge mai, o quasi mai, con evidenza i propri errori. Lo prestiamo a ognuno di noi di Avvenire (che pure facciamo una ragione professionale forte dell’accurata verifica dei fatti) e a tutti i colleghi giornalisti: troppo spesso la nostra categoria maneggia con noncuranza, e a volte anche con ferocia, fatti e accuse (soprattutto su chi, a torto o ragione, è ritenuto vulnerabile) e non rettifica mai, quasi mai, con evidenza le imprecisioni, le storture, le falsità che mette in circolazione. Lo prestiamo a tutti coloro che sono convinti che ci siano, sempre, almeno due verità. E lo prestiamo a Vittorio Feltri, che evidentemente di titoli a tutte colonne (nove in dieci giorni tre mesi fa) su Dino Boffo non ha più intenzione di farne. È un fatto che il direttore del "Giornale", ieri, ha avuto fegato. Dopo quasi cento giorni, alla sua maniera (sempre ruvida) ha corretto la rotta. Una manovra difficile, condotta a denti stretti, sapendo di avere più che buoni e stringenti motivi per non sottrarsi al dovere verso l’interessato, i propri lettori e l’intera opinione pubblica (io – non lo nascondo – l’avrei affrontata in modo assai diverso, ma ognuno mette nel nostro mestiere quel che ritiene e che può). Davvero non so quanti altri avrebbero fatto quel che Feltri ha fatto, sin dal principio. Certo lui un gesto così non lo aveva ancora osato.È un gesto che impressiona, interroga e fa rumore. Come tutti quelli che l’avevano preceduto, eppure in modo infinitamente migliore. Perché ribadisce – e dovrebbe fare chiaro a tutti – che la verità dei fatti può essere maltrattata, stiracchiata, persino negata, ma è una sola. E la verità su Dino Boffo, galantuomo e direttore di questo giornale per tre bellissimi lustri, è sempre stata una: quella che noi abbiamo detto e scritto sin dal principio con la sobrietà che lui stesso ci aveva chiesto di tenere cara e che ora Feltri gli riconosce dicendo che «non può non sucitare ammirazione». La verità su Dino Boffo è quella che la sua vita – passata negli ultimi quarant’anni in una casa di cristallo – racconta. Ce l’eravamo detto – no?– che anche il tempo, giudice inesorabile, sarebbe stato galantuomo. Stavolta non abbiamo dovuto attendere molto, anche se ogni giorno è stato uno di troppo.Forse qualche lettore penserà che il nostro titolo è imponente e il nostro ragionamento è tutto sommato modesto. Forse chi non conosce bene noi di Avvenire rimarrà interdetto. Dov’è il clangor di sciabole? Dove sono le rivalse, le controaccuse, le scudisciate? Sono altrove. Noi facciamo battaglie, non guerre. Indichiamo problemi e, quando possiamo, soluzioni, non sputiamo sentenze. E siamo e restiamo preoccupati. Perché un atto di riparazione dopo una smisurata operazione denigratoria è stato, in qualche modo, compiuto, ma un problema enorme resta aperto.Oggi più che mai noi giornalisti dobbiamo avere il coraggio di ammettere che il più lancinante dei problemi che attanagliano il mondo dell’informazione non è quello della libertà, ma quello della responsabilità. Responsabilità verso la realtà dei fatti, verso chi ci legge e ci ascolta, verso noi stessi. Stavolta era stato uno di noi, uno dei migliori tra noi, a finire immotivatamente nel tritacarne. È rimasto in piedi nonostante tutto, perché è un uomo probo e ha la libertà di chi vive una vita spirituale intensa. E ha potuto ricevere pubblica soddisfazione (domani capiremo fino a che punto) dal pubblico ripensamento di Feltri. Ma chi non è altrettanto forte moralmente, chi è solo e disperato, chi non è conosciuto da tanti per ciò che davvero è, chi non è in condizione di ottenere (o anche solo aspirare a ottenere) riparazione nel sommario "tribunale" dei mass media? È una domanda ancora senza accenno di risposta. E da essa non possiamo e non dobbiamo distoglierci.