Il confronto sui fatti concreti è sempre costruttivo, come sta dimostrando il serrato dialogo in corso tra
Avvenire e il neurologo Carlo Alberto Defanti sull’
Unità riguardo le più recenti scoperte sullo stato vegetativo e sull’eventualità che anche Eluana Englaro potesse entrare in contatto con l’ambiente circostante, se qualcuno avesse utilizzato le nuove tecniche di indagine descritte dalla letteratura scientifica.Nel suo ultimo intervento Defanti concorda con noi anzitutto sul fatto che chi si trova in stato vegetativo non è un vegetale inerte ma una persona viva, e aggiunge che «su questo non c’è mai stato il minimo dubbio». Ne siamo lieti, e prendiamo atto della sua tardiva ma importante smentita pubblica di Amato De Monte che proprio un anno fa, dopo aver accompagnato la giovane in ambulanza nel suo ultimo viaggio da Lecco a Udine dichiarò che Eluana era morta da diciassette anni.Siamo sostanzialmente d’accordo anche su un secondo punto: e cioè che nella letteratura del settore non esistono studi in grado di correlare la gravità del grado di atrofìa del cervello e lo stato di coscienza di una persona, sul quale l’autopsia non può dare informazioni certe. Secondo Defanti, infatti, le lesioni riscontrate in Eluana «rendono assai poco verosimile la loro compatibilità con un’attività di coscienza»: in altri termini, non lo possono escludere con certezza.La sentenza della Cassazione sulla base della quale Eluana è stata fatta morire disidratata indicava però un criterio diverso: perché si potesse sospendere la nutrizione assistita non ci doveva essere «alcun fondamento medico che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, seppure flebile, recupero della coscienza». I giudici davano cioè per scontato che Eluana non avesse alcuna coscienza di sé, e chiedevano di escludere con sicurezza che tale coscienza potesse essere recuperata, anche in minima parte.Per quel che oggi ne sappiamo, invece, non potremo mai escludere la possibilità che Eluana avesse un qualche livello di consapevolezza. Come da così tanti dubbi, poi, sia scaturita la convinzione che la si potesse lasciar morire rimane ancora un mistero che non lascia per niente tranquilli.E allora, quali nodi restano ancora da chiarire? Qui arriviamo al punto: Defanti riconosce che il problema non è stabilire se queste persone conservino o no tracce di coscienza ma piuttosto chiedersi se valga la pena mantenerne il «sostegno vitale» (sottintendendo di passaggio, insieme a noi, che la nutrizione assistita non è una terapia medica ma un nutrimento necessario a tenere in vita un essere umano). Non importerebbe cioè lo stato o meno di coscienza di queste persone, ma la loro qualità di vita. In gioco qui sono i criteri con cui valutare in quali condizioni vale la pena di continuare a vivere, e stabilire poi chi è legittimato a giudicare in materia. Ma chi può stabilire in quali condizioni la vita si può definire «invivibile»? È giusto e possibile decidere per gli altri quando sono inconsapevoli? Veramente riteniamo possibile che una persona possa decidere, quando ancora è in salute, le condizioni in cui lasciarsi morire, in un futuro indefinito? A un anno di distanza dalla morte di Eluana, nel pieno del dibattito parlamentare attorno alla legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, sono queste le domande che – piaccia o no – tornano in gioco.