Pare dunque essere diventata una questione di “tempi”. O forse negli ultimi vent’anni lo è sempre stata. Complice la gelata primaverile del Pil e un’Italia di nuovo in recessione, il tema “priorità del Paese” ha coagulato il dibatto politico-economico di questa breve estate. Sollevando un quesito di fondo a elevata intensità amletica: gettare per prima cosa le fondamenta delle riforme istituzionali e completare poi, in un secondo momento, quelle economiche finora solo abbozzate? O meglio invertire l’ordine? Spendere subito il dividendo elettorale per cambiare il Palazzo – come da agenda governativa – o puntare soprattutto a rimettere l’economia in carreggiata nei “mille giorni”?
Per la scuola di pensiero che “con il nuovo Senato non si mangia” la tabella di marcia dell’esecutivo è sballata. Renzi avrebbe dovuto varare immediatamente e a colpi di fiducia un corposo – e costoso, sul piano politico – programma economico da presentare a Bruxelles quale merce di scambio per allentare le cinghie del Fiscal Compact. E solo dopo cimentarsi con il superamento del bicameralismo perfetto e le nuove regole di voto.
All’opposto, c’è chi non solo contempla e “pesa” l’impatto economico immediato delle riforme istituzionali: le considera, anzi, struttura indispensabile sulla quale provare a erigere tutto il resto. A questo filone sottende una nuova scuola di pensiero economico ben rappresentata dal libro “Perché le nazioni falliscono, alle origini di prosperità, potenza e povertà” scritto dall’economista del Mit Daron Acemoglu e dal politologo di Harvard James Robinson. Prendendo, fra i tanti, quali esempi la città di Nogales, divisa fra Messico e Stati Uniti, o il 38° parallelo che separa le due Coree, Acemoglu e Robinson ricostruiscono come nella storia centenaria dell’economia moderna il successo di un Paese dipenda quasi sempre dalle regole istituzionali e giuridiche che si è dato.
Ebbene: il presidente del Consiglio, che pure non intende rinunciare a muovere le sue pedine anche sulla scacchiera dell’economia (e in questo senso gioca una cruciale partita in Europa), sembra condividere questo approccio istituzionale. Reputando, in sostanza, fattibili riforme economiche profonde come quelle di cui ha bisogno il Paese solamente qualora vengano incardinate in un assetto politico-istituzionale diverso da quello della Prima e della cosiddetta Seconda Repubblica. Impostazione condivisa dallo stesso ministro dell’Economia: Pier Carlo Padoan ritiene infatti – e lo ha più volte ribadito – che le riforme istituzionali garantiscono la semplificazione del processo legislativo e la certezza della durata dei governi.Condizioni preliminari, queste ultime, per interventi strutturali come la riforma di una burocrazia cresciuta smisuratamente di peso negli anni della debolezza della politica, l’abbattimento della pressione fiscale e la profonda riorganizzazione del mercato del lavoro. Interventi che richiedono tempi politici lunghi non solo per essere “cantierati”, ma anche per dispiegare il loro effetto. In fondo la scommessa di Renzi è provare a costruire una macchina nuova, non a ripararne il motore. C’è tuttavia una riforma che potrebbe mettere d’accordo tutti sulla questione “tempi”, sia i fautori dell’emergenza economica sia i sostenitori del riassetto istituzionale: quella del titolo V della Costituzione. Il “federalismo” sbilenco e rissoso che ha scatenato un conflitto dai costi economici oramai insostenibili tra potere centrale e poteri periferici. Considerare proprio tale riforma una priorità – e accelerarne pertanto la ricalibratura all’interno dei lavori in corso sulla seconda parte della Legge fondamentale dello Stato – significherebbe intervenire da subito e in profondità su ampie porzioni sclerotizzate del corpo economico italiano: dal Fisco al lavoro, passando per la spesa pubblica. Qualche esempio in materia: il federalismo fiscale ha prodotto dal 1997 a oggi un aumento della tassazione locale pari al 191% contro il 42% di quella centrale (secondo un’elaborazione dell’Ufficio Studi Cgia di Mestre su dati Istat e Mef). Ma il decentramento di parte delle funzioni dallo Stato alla periferia non è riuscito a frenare la spesa pubblica, che ha continuato a crescere in misura superiore alle entrate, tanto che quest’anno – secondo le proiezioni – saranno versati quasi 700 miliardi di tasse e contributi sociali contro una spesa al netto degli interessi di 726 miliardi di euro. E che dire dei milioni di cittadini tuttora ignari sull’esborso previsto a metà ottobre per la Tasi, nuova Tassa sui servizi indivisibili, visto che finora solo 3.625 sindaci su 8.000 hanno pubblicato la delibera di competenza sul portale ufficiale delle Finanze? Peccato che nel frattempo quegli stessi cittadini abbiano iniziato a ricevere il conto della tariffa Tari sulla produzione di rifiuti, seconda gamba della nuova Iuc, Imposta unica comunale, che inglobando anche l’Imu sul possesso degli immobili a esclusione della prima casa è diventata una “Service Tax”. Quasi un rompicapo che calpesta ogni diritto stabilito dallo Statuto del contribuente. Difficile infine e per chiunque digerire il fatto che 1.424 partecipate degli enti locali – società pubbliche, quindi – brucino risorse degli italiani invece di generarle come in passato è anche stato e come oggi sarebbe ancor più possibile. Il presidente del Consiglio sembra avere bene in mente quanto sia urgente sbrogliare questa matassa in cui s’intrecciano nodi istituzionali ed economici, morali e di civiltà. Ma molto dipenderà dal “ritmo” che sceglierà d’imprimere all’orchestra. Naturalmente il pubblico non sono le élite culturali che discettano di priorità, né i suggeritori interessati di (s)vendite frettolose anche di servizi essenziali, né i partiti di maggioranza o di opposizione e nemmeno l’inafferrabile Europa: sono le famiglie italiane. E la musica che a queste più servirebbe, oggi, è buona musica capace di far passare la paura.