martedì 21 settembre 2010
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La XVII giornata mondiale dell’Alzheimer, che si celebra in tutto il mondo oggi, invita tutti a un impegno maggiore per una malattia in forte crescita e ampiamente sottovalutata nelle politiche pubbliche. A fronte di una presenza stimata di malati in Italia di circa 500mila unità, si parla di un raddoppio nel giro di 40 anni. Soprattutto la malattia di Alzheimer rappresenta per molti aspetti un caso emblematico dei problemi sociali e di salute delle società moderne, e soprattutto dei loro sistemi di welfare e di sanità: in quanto malattia cronico-degenerativa in forte aumento, spesso sottostimata e non sempre tempestivamente diagnosticata; in quanto malattia familiare (per il peso che esercita sulla famiglia del malato e per il livello di coinvolgimento richiesto); in quanto malattia che provoca costi economici e sociali notevoli (e non in ambito ospedaliero, un comparto di per sé ben attrezzato per gli interventi onerosi, quanto a livello di assistenza sanitaria a domicilio, di assistenza socio-sanitaria e di assistenza sociale); e in quanto malattia che, secondo i lavori condotti dal Censis e relativi al 2006, impegna le tasche private delle famiglie coinvolte per 60mila euro di spesa media. Come è stato bene evidenziato nel corso del Convegno tenutosi il 19 settembre a cura dell’Associazione Alzheimer Uniti, del Centro Alzheimer della Fondazione Roma, della Società italiana di gerontologia e geriatria e dell’Associazione italiana di psicogeriatria, non si capisce come mai, a fronte di un’incidenza della malattia di sole 3 volte inferiore a quella del cancro, all’Alzheimer si riservi un numero di studi preclinici e clinici 30 volte inferiore (800 contro 27.000) in tutto il mondo. Ed è noto che i progressi in ambito oncologico sono stati grandi e fruttuosi negli ultimi 10 anni proprio per l’impegno profuso e la collaborazione tra centri di ricerca di tutto il mondo. Un maggiore impegno nella ricerca è dunque il primo punto all’ordine del giorno di fronte ad una malattia che colpisce ormai il 9% degli ultra-sessantacinquenni. Il secondo punto è quello della umanizzazione e integrazione dei servizi, in quanto siamo di fronte a una patologia che richiede risposte cliniche e sociali, di assistenza prolungata a casa e di ricovero nei casi più gravi, di supporto economico e di sostegno psicologico ai familiari che curano e assistono il malato. A fronte di ciò, salvo interessanti e lodevoli esperienze pilota, ci si scontra ancora in gran parte con una situazione di scoordinamento, non solo tra sociale e sanitario, ma anche all’interno dello stesso comparto sanitario. Da una verifica sul campo realizzata a Roma è emerso, ad esempio, che in molte situazioni le famiglie che scoprono di avere al proprio interno una persona affetta da Alzheimer, si scontrano con la incompletezza delle informazioni sui referenti e sui percorsi terapeutici, con un  carico burocratico enorme, con tempi di attesa incompatibili anche con il lento decorso della patologia, con duplicazioni e costi proibitivi. Nel tentativo di costruire, dopo una prima diagnosi, un percorso di assistenza e supporto minimale per il proprio congiunto, la famiglia in questione deve rivolgersi per le varie prestazioni previste ad almeno 6 diverse tipologie di soggetti, la azienda sanitaria, l’Inps territoriale, il Municipio, il distretto socio-sanitario se esiste, i centri convenzionati, le associazioni dei malati, delle famiglie e dei care-giver (i prestatori di cure, professionali o no) ciascuno dei quali le chiederà molti documenti, spesso in originale, e aprirà una nuova cartella clinica. In una fase avanzata della malattia la gestione dei beni e servizi per il malato sarà soggetta alla nomina di un amministratore di sostegno da parte del Tribunale civile, con altri documenti e trafile. Se dopo molti mesi di attesa riuscirà a conquistare i primi posti nelle liste di attesa dei pochi centri diurni (che accolgono i malati per tre mezze giornate a settimana) potrà sentirsi chiedere una compartecipazione alla spesa che può raggiungere la cifra di 800 euro al mese. Ciò che più di tutto viene a mancare è la tanta decantata "presa in carico", assente nella cultura della maggior parte degli operatori pubblici, mortificata in quelli del volontariato e del Terzo Settore per carenza di risorse. C’è da sperare che la XVII giornata mondiale scuota le coscienze di chi ha a cuore la centralità della persona nelle politiche pubbliche.
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