Qualche giorno fa ero al mare con mio figlio di 9 anni. Eravamo da poco arrivati in spiaggia e, in riva al mare, c’era un altro bambino, più o meno della sua età, impegnato nello scavo di una buca, certamente prodromo di una qualche fantastica costruzione. Mio figlio si avvicina, osserva un po’ l’attività dell’altro bambino, poi, senza grandi discorsi, si mette a scavare insieme a lui. Dopo pochi minuti l’attività risultava perfettamente organizzata: chi scavava, chi portava secchielli d’acqua di mare per consolidare gli scavi. L’integrazione dei ruoli era estremamente efficace e il lavoro procedeva senza interrompersi nemmeno per inserire altri bambini che, nel frattempo, si erano aggiunti al gioco. Non nascondo che all’inizio osservavo per esser certo che i due non entrassero in qualche modo in conflitto (il gioco dei bimbi può rapidamente degenerare in lite). Tuttavia ben presto mi si è posta una questione ben più interessante: cosa fa sì che due persone, sconosciute, comincino spontaneamente a collaborare, a costruire qualcosa, senza che vi sia una sovrastruttura che decida la modalità “giusta” perché questo possa avvenire e, per certi versi, gratuitamente?L’episodio mi ha così fatto tornare alla mente quanto mi aveva raccontato, alcuni anni fa, il sindaco di un borgo della Valtellina. Lo avevo conosciuto nell’ambito di una ricerca sul tema dello sviluppo di comunità e mi aveva colpito il fatto che il Comune da lui amministrato presentasse dei dati contrari alla tendenza allo spopolamento che colpiva altri piccoli borghi montani vicini. L’amministrazione aveva certamente attivato in modo efficace una serie di risorse per la popolazione, favorendo tra le altre cose l’occupabilità in loco. Tra tutte le buone prassi, una però mi aveva colpito in modo particolare: in quel paese era rimasta viva una tradizione che prevedeva una concreta collaborazione della comunità nella costruzione della residenza per le nuove famiglie. Persone capaci di costruire davano gratuitamente aiuto ai futuri vicini, e così l’inserimento nella comunità era non solo relazionale, ma sostenuto da una prassi operosa.È dunque possibile un lavoro gratuito. Come del resto dimostra la forza del volontariato, che nel nostro Paese affonda le radici in una tradizione plurisecolare di mutualità e solidarietà. Tuttavia quante volte si fa prevalere una visione di lavoro come “accidente”, come qualcosa da cui, appena possibile, sia utile sfuggire e, se ciò non può essere, almeno venga pagato. La paga però non viene intesa nel senso della “giusta mercede agli operai”, ma piuttosto come una rivalsa verso un’ingiustizia: “Mi tocca lavorare!”. Una visione che si è andata diffondendo. Ne abbiamo avvertito l’eco in tv nelle testimonianze di insegnanti e presidi che, davanti alla “provocazione” del ministro del Lavoro, circa l’opportunità per un ragazzo, a fronte di lunghe vacanze scolastiche, di trovare un qualche lavoro che gli permettesse di sperimentarsi, paventavano innanzitutto lo «sfruttamento» dei giovani. Invece i piccoli (ma in verità non solo loro) si mettono naturalmente insieme per lavorare. Questo attesta, a mio avviso, innanzitutto il fatto che l’amore al lavoro, il desiderio di costruire, siano iscritti in profondità nel nostro essere.Inoltre – questa è la seconda riflessione che vorrei proporre –, se questo desiderio di lavorare è connaturato a una struttura antropologica data agli uomini e condivisa tra essi, ne deriva che il soddisfarlo porti con sé una inevitabile connotazione educativa, foriera di uno sviluppo positivo della persona. Il lavoro cioè è intrinsecamente educativo, per questo, prima che di educazione al lavoro, dovremmo parlare di educazione attraverso il lavoro. I bambini che insieme vogliono costruire al mare un castello di sabbia devono imparare a organizzarsi, a rispettare compiti e ruoli, a comunicare, a valutare l’esito del proprio lavoro. Certamente non è detto che riescano a farlo da soli, spesso c’è bisogno di un adulto volenteroso che si metta a disposizione, per aiutare, correggere, talvolta indicare come sia meglio fare una certa cosa. Del resto questo accade anche in azienda, anche all’interno di gruppi di lavoro costituiti da adulti altamente specializzati.Ma all’origine di questo collaborare c’è una motivazione a generare che di per sé offre i criteri – per dirla con Peguy – di un lavoro ben fatto e che rappresenta il motore che sostiene lo sviluppo dei giovani e della loro occupabilità. Magari fino a invertire la tendenza evidenziata dai numeri spaventosi che descrivono la disoccupazione giovanile del nostro Paese e, in particolare, il fenomeno dei “neet”, quelli che non lavorano e in nessun modo si formano.