La buona notizia? L’Africa torna tra i grandi della politica. La cattiva notizia? Non ci sono altre notizie. L’esito dei summit, anche di quelli meglio riusciti, va sempre preso con saggezza. Ed è basilare distinguere ciò che potrà durare da ciò che, magari anche nel bene, è destinato a passare. Un esempio: il G8 ha deciso di stanziare 20 miliardi di dollari per garantire la stabilità alimentare dell’Africa. Nella parte sub sahariana del continente, il 32% della popolazione (260 milioni di persone, dati Fao) soffre la fame, con un aumento dell’11,8% sul 2008. Molti degli affamati, e di certo i 'nuovi' affamati, pagano la corsa dei prezzi dei prodotti agricoli, innescata da speculazioni partite nei Paesi ricchi e poi aggravata da una crisi finanziaria tutta Occidentale. Mantenere o aiutare gli indigenti è ciò che passa, frenare i meccanismi speculativi che si scaricano sui più deboli è ciò che resta. Ben vengano, dunque, i miliardi del G8 ma ancor più l’intenzione di puntare meno sugli aiuti alimentari e più sull’agricoltura, affinché gli africani possano mantenersi da soli. Di esempi simili se ne trovano molti. Tra pochi anni, almeno 100 milioni di africani (dati African Partnership Forum) soffriranno per mancanza d’acqua, sempre che non si realizzino gli scenari più pessimistici sul riscaldamento del pianeta. Come provvedere se non passando, anche, per un accordo globale sull’ambiente? E i 22 milioni di sieropositivi (sui 33 del mondo intero) dell’Africa sub sahariana, con l’enorme potenziale di contagio che portano nel loro dramma? Come curarli se non passando, anche, per un accordo globale sui diritti di sfruttamento dei medicinali? Oggi, però, il bisogno primario dell’Africa è trovare un ancoraggio con il resto del mondo. Uscire dalla condizione di continente assistito e marginalizzato e inserire la propria voce nel coro globale, ascoltando e facendosi ascoltare. Sentirsi dire più spesso, come ha fatto ieri Barack Obama nel discorso al Parlamento del Ghana: «Considero l’Africa parte fondamentale del nostro mondo interconnesso ». Principio importante perché consente poi di ricordare agli africani la responsabilità che deriva dalla capacità. Con il suo talento per i gesti simbolici, Obama ha reso omaggio alla democrazia ghanese, ma al Kenia delle radici paterne ha riservato il ricordo di uno status economico un tempo florido e poi dissipato. Senza falsi buonismi ha detto che «il futuro dell’Africa spetta agli africani» e che «lo sviluppo dipende dalla buona governance, ingrediente andato perso in troppi luoghi e troppo a lungo». Sedere al tavolo dei grandi, come al G8 il colonnello Gheddafi e altri leader africani, è già qualcosa. Sfruttare il traino dei Paesi emergenti (nel G14 c’è già il Sudafrica e l’Egitto è osservatore) è già molto. Ma decisivo diventa che i Paesi sviluppati rifiutino il protezionismo e, anzi, mandino in porto i negoziati (il 'Doha Round') per aprire a tutti le rotte degli scambi commerciali, dando così all’Africa l’opportunità di giocare le proprie carte, offrire al mercato i frutti del proprio lavoro, sfuggire alla sorte che già si profila: fare da riserva di materie prime e terre fertili per chi ne ha bisogno e può pagare, come India e Cina. Non si tratta di quattrini ma di vite. E di sviluppo nel senso più ampio del termine: politico, culturale (fino a quando il 62% dei 161 milioni di adulti analfabeti africani dovrà essere donna?), economico, persino sanitario. Lo sviluppo che nasce dal contatto e dalla contaminazione con l’esperienza altrui.