giovedì 30 luglio 2009
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Le violenze che stanno insanguinando in questi giorni gli stati settentrionali della federazione nigeriana rappresentano un drammatico segnale dell’instabilità in cui versa, con i suoi 150 milioni di abitanti, la più popolosa nazione africana. È uno dei più infuocati scenari dell’Africa subsahariana, dove i fautori dell’estremismo islamico hanno grandi responsabilità avendo imposto la sharia nel Nord del Paese. Introdotta ai tempi dell’ex presidente Olusegun Obasanjo, l’applicazione della legge islamica ha evidenziato, nell’arco di quest’ultimo decennio, la debolezza del governo centrale di Abuja, trattandosi di una normativa religiosa in fragrante violazione del dettato costituzionale vigente nella repubblica federale nigeriana. Dopo l’11 settembre del 2001 l’infiltrazione di predicatori islamici, provenienti sia dall’area magrebina sia dal versante mediorientale, si è acuita a dismisura innescando scenari di vera e propria guerra civile. Sarebbe però riduttivo e forviante pensare che l’elemento religioso sia l’unico a cui imputare i disordini che periodicamente sconvolgono la Nigeria. Vi sono altre componenti, prevalentemente sociali, politiche ed economiche, sulle quali è opportuno soffermarsi, sintomatiche dello stato di precarietà che attanaglia un Paese che galleggia sul petrolio. Non è un caso, a detta degli osservatori, che proprio in questi giorni si stia discutendo nel parlamento federale un nuovo 'oil bill', una legge che tra l’altro prevede l’aumento della quota fiscale che le compagnie petrolifere dovrebbero versare allo Stato. Se così fosse si riuscirebbe a riunire in un solo provvedimento la galassia di normative e regolamenti, in molti casi vecchi di 40 anni, relativi al business dell’oro nero. Se questo progetto legislativo dovesse passare, da una parte verrebbero finalmente garantiti ampi poteri alla compagnia petrolifera nazionale sull’esempio di altri Paesi quali il Brasile, la Malesia e L’Arabia Saudita. Dall’altra si potrebbe finalmente raggiungere quel livello di trasparenza di tutta l’industria estrattiva agognata dalla società civile, soprattutto nella tormentata Regione del Delta del Niger. Una formula che è stata definita in gergo tecnico di 'equitable sharing', una sorta di panacea per un Paese in cui i proventi del greggio finiscono, a parte le multinazionali del settore petrolifero, sempre e comunque nelle tasche dell’1,5% della popolazione che detiene il 75 per cento della ricchezza nazionale. Come era prevedibile, la reazione delle compagnie straniere, che costituiscono una vera e propria lobby attraverso la connivenza di alcuni esponenti della classe politica locale, non si è fatta attendere, con minacce persino di abbandonare il Paese perché non più redditizio dal punto di vista commerciale. Fonti giornalistiche locali riferiscono che gli ambasciatori degli Stati Uniti d’America, del Regno Unito e dell’Olanda stanno premendo perché venga rivisto il pacchetto fiscale che riguarda le compagnie dei loro Paesi, dichiarando che se il progetto di legge dovesse passare renderebbe totalmente antieconomico il loro investimento. È certamente significativo, come peraltro rilevato da alcuni autorevoli analisti, che la rivolta degli estremisti islamici 'Boko Haram' nel Nord della Nigeria sia coincisa col dibattito parlamentare sul petrolio. Un tentativo, quello degli estremisti, che comunque mirava ad indebolire lo Stato centrale facendo leva anche sulla povertà che assilla vasti settori della popolazione. Ecco perché occorre riaffermare i buoni propositi del recente vertice dell’Aquila, nella consapevolezza che la questione sociale è imprescindibile nell’agenda del commercio internazionale. Anche quando sono in gioco gli interessi petroliferi.
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