Venezia sommersa dall’alta marea e Taranto soffocata dalle polveri. L’una abbandonata al proprio destino di sprofondo, l’altra lasciata sola per l’ennesima volta dal disimpegno imprenditorle. Venezia che muore e Taranto che si spegne rappresentano oggi, loro malgrado, le città simbolo della sofferenza, del contrasto fra uomo e natura e dell’apparente inguaribilità dai propri mali. Come se un ineluttabile fato ci spingesse verso il declino.
E portasse troppi di noi a metterlo definitivamente in conto, a darlo per scontato. Venezia, senza difese adeguate, al più tardi nel 2100 sarà sommersa; Taranto assai prima, con la fuga di Arcelor Mittal e senza più la grande manifattura, sarà una cittadina fantasma, depressa. Così, già nelle cronache di questi giorni, nel rincorrersi dei commenti a perdere di tanti politici, nei contrasti che subito si sono levati tra un gruppo e l’altro di cittadini, si intuisce come questa presunta ineluttabilità del declino abbia contagiato l’immagine che abbiamo di queste due città. E si instilli come gocce di veleno paralizzante nel sangue degli stessi abitanti che non nutrono più fiducia né in un aiuto esterno né nella propria capacità di cambiare le cose.
E invece è proprio questo che andrebbe perseguito con convinzione. Anzitutto recuperando un racconto differente di questi due antiche capitali di civiltà. Sì, un citytelling diverso, come si dice oggi. Differente dal "com’è triste Venezia" e costosa, e bottegaia che si "vende ai turisti" e dal quanto è irrespirabile Taranto, venefica provincia impoverita. Non si tratta di fare marketing del turismo e neppure di riempirsi di retorica per abbellire complicate storie anche industriali, quelle di due porti sviluppati e snaturati a forza di chimica padrona, acciaio incurante e oltraggiose grandi navi. Si tratta di tornare a pensarsi impegnati insieme e perciò padroni del proprio destino tutto da scrivere, tutto da determinare.
Solo parole? Può darsi. Ma non è stato forse un "diverso racconto" a salvare una città come Matera? Non dobbiamo essere grati al seme del "Cristo si è fermato a Eboli" di Carlo Levi che nel Dopoguerra pose all’attenzione del Paese e della politica la "vergogna d’Italia" della vita misera e negletta dei contadini nei Sassi? È da quel racconto che scaturì, poi, l’impegno corale dei grandi partiti di allora, degli architetti e di imprenditori illuminati come Adriano Olivetti per determinare il riscatto degli abitanti di quella città. Fino poi ai nuovi progetti di recupero e di nuova interpretazione dei Sassi stessi che sono oggi la grande bellezza di Matera, capitale europea della cultura.
A Venezia e a Taranto serve dunque anche una nuova narrazione. Perché raccontando una storia si costruiscono relazioni e solo tornando a raccontarsi la propria storia si ricostruisce l’identità oggi vaga, perduta. E con l’identità si ritrova il senso dell’agire, del progettare assieme una città inclusiva per tutti, dove lavorare per sé e per gli altri, garantendosi anzitutto un ambiente sano, in cui ben-vivere. Venezia è così carica di un passato glorioso – la Repubblica marinara di San Marco protesa verso nuovi territori e popoli, la Serenissima del buon governo, lo splendore ricercato della sua fisionomia – che non è difficile individuare motivazioni ideali e indirizzi pratici non solo per difendere il patrimonio storico-artistico dal mare ma per sviluppare una nuova progettazione della città basata su tre assi portanti: la cultura, il sapere e un turismo non distruttivo. Scegliendo insieme, cittadini e rappresentanti politici, co-progettando e condividendo il proprio futuro.
Oggi abbiamo a disposizione tecnologie impensabili rispetto a quando si infilarono i pali nel fango della Laguna e su quelli si arrivò a costruire la Venezia dei meravigliosi palazzi e della basilica gioiello. E, come dimostra il Mose, oggi non mancano neppure le idee ardite. Difettano semmai l’onestà, la ricerca di un bene comune che impegni tutti al massimo per raggiungere un obiettivo condiviso al di là dei singoli piccoli interessi. E, allo stesso tempo, perché Taranto, che pure dominò le terre della Magna Grecia e in cui primeggiarono i filosofi, non può oggi ripensarsi e diventare il laboratorio di un nuovo modo di custodire la bellezza e la salubrità dei luoghi e di fare impresa? Trasformando, innanzi tutto, l’Ilva da impianto vecchio e sfruttato nel prototipo di un moderno modello di produzione e partecipazione.
Nel quale un gruppo privato investe, innova il modo di produrre per trarne il legittimo profitto, fa insomma il suo mestiere di guida imprenditoriale attenta alle ricadute sulla comunità, mentre lo Stato, cioè il Paese tutto, si assume l’onere del risanamento ambientale, ne è garante, e i cittadini hanno un potere di controllo diretto tramite Consigli di sorveglianza partecipati. Quali limiti furono superati dagli spartani per fondare a Taranto una nuova colonia e invece impediscono a noi, oggi, di ri-progettare una fabbrica fondamentale per tutto il Paese e con essa il modo di vivere di un territorio? «Di una città – scrive Italo Calvino – non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda».
E ciò che si cerca in una città, in realtà, è soprattutto la relazione con gli altri, è il sentirsi parte di una comunità. Cioè identificarsi in una comunanza di valori e di intenti, sapere di non essere soli nelle difficoltà, avere il desiderio di una meta condivisa, tendere a un bene comune. E allora, in fondo, tutto ciò che ci serve a Venezia come a Taranto e altrove, in questo Bel Paese, è semplicemente un filo. Il filo che ci lega al passato, la catena di passaggio delle generazioni. Il filo che tesse relazioni, che ci annoda in un’appartenenza, che dà senso alla trama dei rapporti tra i concittadini.
Mette le persone l’una accanto all’altra e le valorizza come le perle d’una collana. Un filo che aiuta a uscire dal labirinto, quando la vita ci mette in difficoltà. Una corda a cui aggrapparsi per salire verso il proprio futuro. Il filo della nostra storia, da infilare e tirare assieme agli altri per ricamare l’arazzo di una felicità condivisa. A Venezia e a Taranto, se riprendiamo tutti assieme quel filo, si può cucire un altro destino, quello che desideriamo e di cui siamo responsabili.