sabato 19 settembre 2009
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L a verità è che in questi mesi la morte aveva a lungo inscenato la sua macabra danza attorno alle nostre truppe impegnate in Afghanistan, in un crescendo di attacchi, scontri a fuoco, attentati. E purtroppo giovedì ha infine colpito con una durezza devastante, facendo strage fra i nostri paracadutisti e imponendoci il più grave tributo di sangue delle forze italiane impegnate in missioni di pace dopo il sanguinoso attentato di Nasiriyah, nel 2003. Le immagini della violenza dell’esplosione e dei nostri mezzi blindati distrutti, lo sgomento per il gran numero di morti militari e civili, la preoccupazione per i feriti ci riportano proprio all’autunno di sei anni fa, quando l’Italia intera si fermò per stringersi ai propri carabinieri e ai propri uomini uccisi in Iraq. E non vi sono dubbi che lo stesso avverrà nuovamente. Ma se il cordoglio, il dolore, l’affetto per le famiglie dei caduti è identico, la riflessione sulla natura dell’azione del nostro contingente e le conseguenze politiche di tale riflessione possono essere diverse. Come è logico che sia, visto che l’eccidio è avvenuto a otto anni dall’inizio della missione 'Enduring Freedom' che abbatté il regime dei taleban. Dopo otto anni – un tempo politicamente lunghissimo – la situazione è ben lungi dall’essere stabilizzata. Anzi, si moltiplicano i segnali di un continuo peggioramento delle condizioni di sicurezza: se per anni la capitale e svariate province hanno goduto di una sostanziale, se pur relativa, tranquillità, oggi le milizie radicali islamiche dimostrano di poter colpire ovunque. Anche nelle zone più presidiate di Kabul, a ridosso del quartiere generale della Nato, sfruttando un’arma nello stesso tempo semplice eppure terribilmente efficace come le autobombe guidate da attentatori suicidi. Una tecnica affinata in Iraq e contro la quale è difficile proteggersi adeguatamente. Le discussioni non devono allora stupire. Neppure l’emergere di sentimenti di stanchezza, di rassegnazione, persino di inutilità di questi terribili sacrifici. È logico che sia così, come purtroppo è naturale che – nelle democrazie occidentali – si guardi ai sondaggi e si pensi al consenso dell’opinione pubblica. Ma è ancor più cruciale che avvenga nel Paese un’elaborazione razionale di questi sentimenti, che porti a far prevalere valutazioni non dettate dall’emotività e favorisca una migliore comprensione di che cosa sia davvero l’Afghanistan e quale sia la posta in palio. Si è detto tante volte come il progetto iniziale sia ormai fallito. Troppi errori, troppi ritardi, difficoltà oggettivamente altissime. Era velleitario pensare di trasformare un Paese in piena anarchia e ancorato a un tribalismo dogmatico e rigidissimo in una moderna democrazia. Ma questo non significa che se l’obiettivo massimo è sfumato, l’unica alternativa sia un ritiro che saprebbe di resa e destabilizzerebbe ulteriormente la regione. Esiste tutta una gradazione di obiettivi minimi, a livello militare, politico e socio­economico, così come una pluralità di risposte da parte della Nato e dei Paesi coinvolti. Proprio l’azione del contingente italiano a Herat, che si è distinto nell’opera di ricostruzione e per l’attenzione ai civili, può indicare alla coalizione un modo diverso di essere presenti. Va bene aumentare il numero di soldati come vuole Obama per rafforzare la sicurezza. Ma più ancora che lottare contro i taleban per strappar loro il controllo di un villaggio è fondamentale tornare a sostenere l’opera di aiuto e di sostegno alle popolazioni locali, anche con il proprio impegno diretto, vista l’inefficienza e la corruzione dell’amministrazione afghana. Trovare una 'transition strategy' non significa solo inventare una scusa per andarsene, ma anche ricercare – assieme ai membri di un’Alleanza verso cui abbiamo obblighi liberamente sottoscritti – nuove vie per mantenere una presenza sostenibile per noi e utile per gli afghani.
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