Nello stesso giorno in cui il Comune di Firenze ha deciso di conferire la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro, il signor Cesare Lia di Tricase, in Puglia, ha ricevuto una lettera dall’Inps. La raccomandata chiedeva, col consueto stile anonimo degli uffici pubblici, notizie urgenti sul reddito della figlia di Cesare, Emanuela Lia, 37 anni; altrimenti, si minacciava, le sarebbe stata sospesa la pensione di invalidità. Ma Emanuela Lia è dal 1993 in stato vegetativo dopo un incidente. Un’altra Eluana, solo che la sua famiglia non chiede che possa morire, ma da sedici anni combatte perché viva. La contemporaneità dei due episodi la cittadinanza di Firenze sortita dal voto di una maggioranza risicata e con una spaccatura all’interno del Pd, e la distrattamente spietata lettera dell’Inps - fa pensare. Al padre che ha combattuto perché la figlia in stato vegetativo morisse, un’onorificenza. A quello che con la sua famiglia ogni giorno legge brani di libri a Emanuela, e non la lascia mai sola, l’intimazione di un ente burosaurico, viene da dire, tanto cieca e goffa appare quella raccomandata che pretende il reddito di una donna in coma da 16 anni. Non è un caso, questa doppia misura. L’incensamento di Englaro, l’onorificenza, sono l’altra faccia della solitudine e spesso dell’abbandono in cui vengono lasciate in Italia migliaia di famiglie con un malato o handicappato grave in casa. Perché oggi chi vuole 'staccare spine' è funzionale a un certo atteggiamento, e allora va in tv; chi invece con coraggio, e spesso con eroismo, si tiene in casa quel figlio, quella madre, non fa notizia. E per di più è lasciato solo ad affrontare Inps, Asl, Comuni: che scrivono un sacco di raccomandate, tutti gli anni, come ignorando che una donna in stato vegetativo al girare dell’anno non cambia il proprio stato. E allora questa differenza di trattamento suona affronto, per citare un termine usato ieri dall’arcivescovo di Firenze, Betori. Affronto magari bislaccamente distratto, di certo ideologico, a tutti quelli che il loro caro se lo tengono, se lo curano, sacrificando vita e lavoro, semplicemente perché lo amano così, malato com’è. Il signor Englaro ha detto di sua figlia in un’intervista: 'Ogni volta che la guardavo, avrei spaccato il mondo per la rabbia. (...) La mia creatura era vittima di violenza inaudita, anche se a toccarla erano le mani delle suore'. E ha condotto fino in fondo la sua battaglia, nel segno della ribellione al destino toccato a sua figlia, e a lui. Ha vinto, a suo modo, ed è diventato un alfiere della libertà - nel senso in cui si intende oggi questa parola. A Firenze l’hanno detto chiaro: Beppe Englaro, in sostanza, è un eroe, o almeno un modello. E poi ci sono mille Cesare Lia. Le loro storie restano oscure. Che notizia c’è in una malata immobile nel suo letto e amorevolmente accudita? La notizia taciuta è l’infinita fatica e dedizione, e amore, che mille e mille italiani dedicano ai loro cari. Non riceveranno, dalle loro città, alcuna cittadinanza onoraria. Invece, tanta posta: richieste di certificati, grane, ingiunzioni - la macchina della burocrazia che si inceppa e si accanisce. Con l’onoreficenza di Firenze Englaro è un modello, un maestro. E’, quella pergamena, cosa ben diversa dal mostrare solidarietà umana o pietà per la sua drammatica storia. Firenze materializza in una sorta di medaglia al valore il sentire di una parte del Paese: minoranza forse, però rumorosa. Gli altri, i Lia e quelli come lui, militi ignoti di una paziente oscura guerra, che continuino a combattere, perfino con l’Inps, senza riconoscimenti. Quella fatica, quel dolore che non diventa rabbia, non piacciono. L’ordine è: staccare la spina. E questo tempo si sceglie dunque i suoi eroi.